I Servizi di salute mentale al tempo

del COVID-19

bernardo carpiniello

Dipartimento di Scienze Mediche e Sanità Pubblica Università di Cagliari

e SC di Psichiatria, Azienda Ospedaliero Universitaria di Cagliari




RIASSUNTO

Introduzione. L’epidemia da COVID-19 è un grave problema di salute pubblica mondiale con severe ripercussioni anche sulla salute mentale. Obiettivi. L’obiettivo del presente lavoro è di analizzare la risposta dei servizi di salute mentale durante la emergenza pandemica. Metodo. Revisione narrativa della principale letteratura nazionale e internazionale sulla risposta dei Servizi di salute mentale durante la pandemia. Risultati. Quasi ovunque i servizi hanno dovuto subire una più o meno profonda riorganizzazione che, per quanto riguarda i servizi di psichiatria di comunità, ha comportato una notevole riduzione delle attività, solo in parte compensata dalla cosiddetta “telepsichiatria”. Parallelamente si è avuta una contrazione delle attività dei servizi ospedalieri, molti dei quali sono stati riconvertiti in unità di terapia intensiva o semintensiva per pazienti affetti da COVID-19 o hanno dovuto ridurre i posti letto per consentire l’applicazione delle regole di distanziamento personale a livello intraospedaliero. Per la gestione intraospedaliera dei pazienti affetti da disturbi mentali gravi COVID positivi o sintomatici, l’opzione prevalente è stata la creazione di specifiche unità psichiatriche per pazienti COVID positivi o la creazione nei reparti psichiatrici di aree separate ed isolate. Ovunque si sono verificate notevoli difficoltà costituite dalla carenza di dispositivi di protezione per operatori e pazienti e per garantire il rispetto delle regole di distanziamento e delle regole di protezione da parte dei pazienti acuti. Un problema segnalato è costituito dal cosiddetto “doppio stigma”, cioè la discriminazione nell’accesso alle unità di terapia intensiva e semintensiva per i pazienti affetti da disturbi mentali e sindrome da SARS-Cov2-19. Conclusioni. La riduzione delle attività dei servizi di salute mentale ha coinciso col momento di maggior bisogno, quando la popolazione generale ha dovuto subire un profondo distress legato alla pandemia, con conseguenze notevoli sulla salute mentale. Considerato il sicuro aumento dei bisogni assistenziali a causa delle gravi conseguenze socioeconomiche della pandemia, è auspicabile il potenziamento dei servizi di salute mentale.

Parole chiave: pandemia, COVID 19, servizi, salute mentale.



SUMMARY

Mental health service during COVID-19 times

Introduction. The COVID-19 epidemic is a serious global public health problem with severe consequences on mental health. Objectives. The aim of the paper is to analyze the response of mental health services during the pandemic. Method. Based upon the relevant international literature a narrative review of the mental health services response during the pandemic was performed. Results. Almost everywhere mental health services underwent a more or less profound reorganization. As far as community psychiatry services are concerned, a significant reduction of face to face interventions was registered, only partially replaced by the so-called “telepsychiatry”. A restriction of activities in hospital units was also registered. Several units were converted into intensive or semi-intensive care units for COVID-19 patients or underwent a reduction of beds to allow the personal distancing. The prevailing option for the management of inpatients suffering from severe mental disorders and COVID infection, was creating specific psychiatric units for COVID positive patients or seclusion areas in psychiatric wards. Ensuring compliance with the safety rules by acute patients was a common difficulty in psychiatric wards. Everywhere the lack of protective equipment for staff members and patients was one of the major complaints. A common concern emerged for the ‘double stigma’, i.e. discrimination in access to intensive and semi-intensive care units for patients with mental disorders and SARS-CoV-2-19 syndrome. Conclusions. A significant reduction of the activities of mental health services coincided with the period of major need of care for the general population undergoing the severe distress for the pandemic. Given the expected further increase in needs of care due to the serious socio-economic consequences expected, the strengthening of mental health services is considered an absolute necessity anywhere in the world.

Key words: Pandemic, COVID-19, services, mental health.



introduzione

L’epidemia di SARS-CoV-2 è certamente un evento senza precedenti, almeno negli ultimi cento anni, non solo perché è una delle più gravi minacce per la salute pubblica mondiale mai verificatasi, ma anche a causa della novità assoluta di questa pandemia, che ha messo a dura prova sia la ricerca scientifica, impegnata duramente in una corsa contro il tempo per conoscere le caratteristiche del virus SARS-CoV-2 e trovare i mezzi per curare chi ne è stato colpito, sia i sistemi di salute pubblica, messi di fronte alla sfida della prevenzione dei nuovi contagi e della diffusione dell’infezione. Sebbene l’attenzione generale sia stata inevitabilmente rivolta alle conseguenze fisiche a breve e a lungo termine della malattia e alla sua letalità, con una generalizzata risposta di emergenza dei sistemi sanitari ospedalieri, i quali pressoché ovunque, sono stati inizialmente travolti dall’ondata di casi da trattare, lentamente e progressivamente si è fatta strada la consapevolezza del fatto che la pandemia costituiva una minaccia sostanziale anche per la salute mentale. Significativamente è stato lo stesso direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, in un suo recente articolo, significativamente intitolato “Addressing mental health needs: an integral part of COVID 19 response”,1 a dichiarare che “…non solo la pandemia COVID-19 è una minaccia per la salute fisica; influisce anche sulla salute mentale. Durante una crisi è naturale che le persone provino paura, tristezza e ansia… Le avversità non sono solo un potente fattore di rischio per problemi di salute mentale a breve termine… ma anche per i disturbi mentali e comportamentali, come la depressione, il disturbo da stress post-traumatico e il disturbo da uso di alcol… Affrontare la salute mentale nelle emergenze di salute pubblica è vitale…”.



l’impatto del covid sulla salute mentale

Molteplici studi di popolazione condotti nei più diversi paesi dimostrano la significatività dell’impatto della pandemia sullo stato di salute mentale della popolazione, generalmente intervistata mediante indagini online oppure per via telefonica. Una revisione sistematica della letteratura riguardante gli studi pubblicati sino al 17 maggio 2020 relativa a Cina, Spagna, Italia, Iran, Stati Uniti, Turchia, Nepal e Danimarca, ha posto in luce tassi relativamente alti di sintomi di ansia (dal 6,33% al 50,9%), depressione (dal 14,6% al 48,3%), disturbo da stress post-traumatico (dal 7% al 53,8%), nonché di generico “stress psicologico” (dal 34,43% al 38%) e “stress” (dall’8,1% all’81,9%), ponendo anche in luce, quali fattori di rischio associati alle misure di disagio, il sesso femminile, l’età più giovane (<40 anni), la presenza di malattie croniche / psichiatriche, la disoccupazione, lo status di studente e l’esposizione frequente ai social media e ai media tradizionali per quanto riguarda le notizie sul COVID-19; pur tenendo conto della limitazione costituita dal significativo grado di eterogeneità fra gli studi esaminati, questa revisione sistematica ha rivelato come la pandemia COVID-19 sia associata a livelli altamente significativi di disagio psicologico che, in molti casi, raggiungerebbero la soglia di rilevanza clinica.2 Una seconda revisione sistematica con metanalisi, riguardante specificamente gli articoli concernenti la prevalenza di stress, ansia e depressione pubblicati sino fino a maggio 2020, ha posto in evidenza una prevalenza dello stress (5 studi, dimensione del campione di 9074 soggetti) pari al 29,6% (limiti di confidenza del 95%: 24,3-35,4), una prevalenza di ansia (17 studi dimensione del campione di 63.439 soggetti) pari al 31,9% (Intervallo di confidenza 95%: 27,5-36,7) e una prevalenza della depressione (14 studi con un campione di 44.531 persone pari) al 33,7% (intervallo di confidenza al 95%: 27,5-40,6).3 Grazie ad alcuni studi longitudinali di popolazione, è stato anche possibile dimostrare un effettivo incremento degli indicatori di disagio o disturbo emotivo-affettivo rispetto all’era ante-COVID-19. In particolare, uno studio condotto ad Hong-Kong ha paragonato i dati raccolti nel 2016 (N = 4036 soggetti) e nel 2017 (N = 4051 soggetti) con quelli raccolti durante la pandemia dal 9 al 23 aprile 2020 (N = 1501 soggetti); lo studio ha valutato lo stress mediante la Perceived Stress Scale-4, la presenza di sintomi di ansia mediante la General Anxiety Disorders-2, i sintomi di depressione mediante il Patient Health Questionnaire-2, e i livelli di felicità soggettiva mediante una scala Likert a 4 punti, rivelando che durante l’epidemia di COVID-19 rispetto al 2016 e al 2017, il livello di stress era aumentato del 28,3%, la prevalenza di ansia era aumentata del 42,3% e i sintomi della depressione e l’infelicità erano raddoppiati (con valori di p tutti <0,001); inoltre gli aumenti del livello di stress erano significativamente maggiori tra gli intervistati più anziani e meno istruiti (P per le interazioni <0,001).4 Inoltre, uno studio longitudinale inglese5 ha riguardato l’analisi secondaria di uno studio di coorte e longitudinale nazionale, lo UK Household Longitudinal Study (UKHLS) riguardante un campione di famiglie, inclusi tutti i membri di età pari o superiore a 16 anni che avevano preso parte alle precedenti osservazioni, e che, nell’aprile 2020, era stato invitato a completare un sondaggio web sul COVID-19; nello studio gli aspetti riguardanti la salute mentale erano stati valutati utilizzando il GHQ-12; al sondaggio web hanno partecipato 42.330 persone. La prevalenza di livelli clinicamente significativi di disagio mentale nella popolazione esaminata risultava aumentata mediamente dal 18,9% nel 2018-19 al 27,3% nell’aprile 2020. Anche il punteggio medio al GHQ-12 era aumentato da 11,5 nel 2018-19 a 12,6 nell’aprile 2020, risultando dunque di 0,48 punti più alto del previsto, tenendo conto delle precedenti tendenze al rialzo tra il 2014 e il 2018; gli aumenti inoltre sono risultati maggiori nella fascia 18-24 anni e 25-34 anni, nelle donne e nelle persone che vivevano con bambini piccoli e nelle persone che avevano un impiego prima della pandemia. Gli autori dello studio concludevano che i dati raccolti indicavano che la salute mentale nel Regno Unito era peggiorata durante la pandemia rispetto alle tendenze emerse nell’epoca pre-COVID-19. I dati di letteratura indicano anche che nella popolazione generale la fase acuta della pandemia correlava con il picco di massimo livello delle manifestazioni di disagio psichico, che tendevano ad attenuarsi nella fase post-acuta della pandemia. In tal senso vanno letti i dati di uno studio di popolazione cinese implementato in due momenti, durante il picco e la remissione della pandemia COVID-19; in particolare 3233 persone hanno partecipato alla prima ondata e di questi 1390 partecipanti sono stati esaminati in una seconda ondata.6 I risultati dello studio hanno dimostrato che la paura è diminuita in modo significativo nel tempo, mentre il livello di depressione è aumentato significativamente durante la seconda ondata rispetto alla prima ondata del sondaggio; l’età più giovanile, il reddito inferiore, l’aumento del livello di stress percepito e l’eventuale esperienza di quarantena in atto erano predittori significativi dell’escalation iniziale della depressione mentre i giovani e gli individui che avevano una risposta iniziale allo stress più elevata tendevano anche a mostrare più ostilità. Al di là della popolazione generale, anche due gruppi selezionati di popolazione hanno ricevuto la loro attenzione: i lavoratori della sanità e le persone già affette da problemi di salute mentale. La particolare, maggiore esposizione dei lavoratori della sanità al rischio di infezione spiega la particolare frequenza delle manifestazioni di disagio psichico in questo gruppo. Una revisione sistematica con metanalisi della letteratura esistente sino alla data del 17 aprile 2020 riguardante tredici studi per un totale complessivo di 33.062 soggetti esaminati ha dimostrato che le manifestazioni ansiose avevano una prevalenza aggregata del 23,2% mentre quelle depressive avevano un tasso di prevalenza del 22,8%; la prevalenza dell’insonnia risultava del 38,9%; l’analisi per sottogruppi ha rivelato differenze di genere e professionali, con le donne in generale e gli infermieri che sono risultati avere tassi più elevati di sintomi affettivi rispetto al personale maschile e a quello medico.7 Una seconda revisione sistematica8 con metanalisi della letteratura pubblicata fino al 15 aprile 2020 ha riguardato invece tutti gli studi che riportavano risultati riguardanti la salute fisica e mentale in operatori sanitari infetti/esposti a sindrome respiratoria acuta grave (SARS), sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS) e al nuovo coronavirus (COVID-19) per un totale di 115 articoli in cui erano stati considerati un totale di 60.458 operatori sanitari con età di 36,1 ± 7,1 anni, di cui il 77,1% donne; i risultati concernenti la salute mentale evidenziavano che complessivamente il 62,5% del personale sanitario esposto a SARS/MERS/COVID-19 manifestava problemi di salute (tabella I). L’impatto sulle persone già affette da problemi di salute mentale è a sua volta ben documentato in letteratura. Uno studio coreano su persone poste in quarantena per MERS aveva già dimostrato che, dopo aver controllato per altre variabili di confondimento, le persone con preesistenti disturbi mentali avevano un rischio significativamente più elevato di manifestazioni di ansia e di rabbia a 6 mesi dalla fine della quarantena.9 Uno studio ha esaminato pazienti con disturbi alimentari durante la pandemia rilevando che il 37,5% riferiva un peggioramento della sintomatologia del disturbo alimentare con il 56,2% dei soggettivi che riportava sintomi di ansia precedentemente non presenti.10 Un altro studio ha riportato che il 20,9% dei pazienti con disturbi psichiatrici preesistenti di vario tipo riferiva un peggioramento dei sintomi.11






L’effetto psicopatogeno della pandemia sulla popolazione generale ha molteplici livelli di spiegazione, sostanzialmente riconducibili al ruolo di “evento stressante” di particolare impatto emotivo-affettivo (tabella II).




A questo effetto è da aggiungersi il ruolo biologico del virus a livello del SNC, con il conseguente aggravamento e/o slatentizzazione di disturbi mentali preesistenti o la comparsa di sintomi/sindromi psichiatriche ex novo; gli effetti della infezione da COVID-19 sarebbero mediati sia dal processo infiammatorio sistemico che a livello del SNC, attraverso il massiccio aumento delle molecole infiammatorie cerebrali, l’attivazione della reattività neurogliale, le alterazioni della neurotrasmissione ed il rimodellamento patologico delle reti neuronali; dette modificazioni funzionali e strutturali a livello centrale assieme ai meccanismi attivati dal potente stress ambientale causato dalla pandemia, spiegherebbe la insorgenza e/o la recrudescenza di diverse patologie psichiatriche quali il disturbo depressivo maggiore, il disturbo bipolare, i disturbi psicotici, il disturbo ossessivo-compulsivo e da stress post-traumatico oltre che i sintomi confusionali sino al delirium.12,13


come i servizi di salute mentale hanno risposto

alla pandemia da covid-19

A fronte del notevole incremento dei disturbi mentali appare lecito chiedersi quale sia stata la reazione dei servizi di salute mentale e quali siano le loro prospettive future in questa situazione di crisi planetaria, partendo dai dati provenienti da alcuni Paesi stranieri sui quali sono stati pubblicati dati di livello nazionale, per poi passare ad una disamina della situazione italiana. Gran parte dei lavori pubblicati sono contributi di tipo descrittivo nei quali vengono riportate le principali misure adottate dai servizi di salute mentale per fronteggiare la situazione durante la pandemia e, soprattutto, le maggiori difficoltà emergenti. Moltissimi studi riguardano realtà locali a livello intra-nazionale, mentre pochissimi sono i report nazionali, sui quali ci soffermeremo.


La situazione cinese

La Cina è, come noto, il primo Paese ad essere stato duramente colpito dalla pandemia, la quale, come altrove, ha non solo messo a dura prova il sistema della salute mentale, ma ha anche aperto una riflessione e un dibattito sulla necessità di introdurre un cambiamento di sistema, così come emerge da un importante articolo di Yu-Tao Xiang et al.14 Nell’articolo viene segnalato come già nel febbraio 2020 si contavano centinaia di pazienti psichiatrici gravi affetti da COVID-19 negli ospedali psichiatrici cinesi. Nel contempo veniva segnalato come la Commissione Sanitaria Centrale Cinese aveva deciso di istituire dei “crisis teams” in diversi ospedali psichiatrici nella provincia di Hubei e altre parti della Cina, per supportare la popolazione generale gravata dalla pandemia e dalla quarantena. In tal modo si è determinato inevitabilmente un ulteriore carico di lavoro di un sistema di salute mentale già gravato da inadeguate risorse, tenuto conto, ad esempio, che la proporzione di psichiatri e medici negli ospedali psichiatrici nel Paese era nel 2016 di 2,15 per 100.000, una cifra considerata notevolmente inferiore a quello della maggior parte dei Paesi sviluppati. Una delle conseguenze di questa risposta costituita dal dispiegamento di team di esperti di ospedali psichiatrici sarebbe stato dunque l’impoverimento ulteriore del livello di assistenza negli ospedali psichiatrici. Tutto ciò in assenza di un sistema di psichiatria di comunità, che ha comportato un inevitabile, eccessivo affidamento sui servizi forniti da grandi ospedali psichiatrici. Peraltro, nella stragrande maggioranza dei casi, i pazienti con gravi disturbi mentali hanno potuto contare come di consueto solo sull’assistenza psichiatrica ospedaliera, in una situazione in cui la maggior parte degli ospedali erano situati nelle zone urbane, il che ha implicato un maggior rischio di esposizione al COVID, considerando anche che gli ospedali psichiatrici cinesi sono stati considerati dagli autori stessi raramente in grado di implementare le stesse misure rigorose di controllo della diffusione dell’infezione garantita dagli ospedali generali. Una delle maggiori preoccupazioni durante la pandemia è stata infatti la maggiore vulnerabilità rispetto al COVID dei degenti negli ospedali psichiatrici in Cina, caratterizzati da sovraffolamento e da spazi limitati, con ampia condivisione di spazi comuni per i pasti e i servizi igienici, in una situazione in cui la partecipazione ad attività di gruppo aumenta la possibilità di contatto interpersonale, in persone che peraltro, a causa delle loro condizioni mentali, presentano scarse capacità di autocontrollo e cura di se stessi e una sostanziale incapacità di rispettare le regole di sicurezza e autoprotezione. Tutto questo, come sostenuto dagli autori, assieme a stili di vita non sani, agli effetti collaterali dei farmaci psicotropi, ad uno stato di salute generale spesso non ottimale, renderebbe gli ospiti degli ospedali psichiatri cinesi particolarmente vulnerabili alla polmonite COVID-19 e alle sue complicazioni. Viene peraltro lamentato che in Cina la maggior parte degli psichiatrici, nei loro corsi di formazione specialistica, non riceve una formazione adeguata alla prevenzione e al trattamento di malattie infettive, anche in considerazione del fatto che nell’ultimo decennio il periodo di stage in medicina interna è stato ridotto, al fine di ampliare la durata della formazione specifica nel settore salute mentale. La conseguenza temuta di questo sarebbe stata dunque la limitazione della competenza clinica degli psichiatri nel farsi carico del controllo della trasmissione del COVID-19 negli ospedali psichiatrici. Un aspetto importante che viene sottolineato nell’articolo è la sfida posta dalla quarantena di massa all’assistenza psichiatrica dei pazienti cronici affetti da gravi disturbi mentali che vivono in comunità. Secondo le normative cinesi, i pazienti clinicamente stabili vengono di norma gestiti dagli ambulatori ospedalieri, che spesso sono molto lontani dai luoghi di residenza. La sospensione del trasporto pubblico a Wuhan e molte altre città in Cina è stata un grande ostacolo all’accesso ai trattamenti per questi pazienti. Per superare quella che viene considerata una eccessiva dipendenza dagli ospedali psichiatrici, gli autori significativamente auspicano una adeguata riforma sanitaria, con la promozione di un sistema di salute mentale di comunità che contempli il trattamento domiciliare dei pazienti gravi.


La situazione francese

La situazione nazionale francese è stata descritta da Bocher et al.15 in un articolo descrittivo della situazione dei servizi in Francia a partire dal primo picco epidemico. Da allora le condizioni generali di accoglienza sono state improvvisamente modificate nei reparti di degenza psichiatrica: il numero delle strutture di degenza e quello di pazienti ospedalizzati sono diminuiti rapidamente per effetto del calo dei ricoveri e per dimissioni più rapide. Ad esempio veniva citato l’ospedale di Nancy, che aveva avuto una diminuzione del 23% in 13 giorni del numero di pazienti ricoverati tra il 6 marzo 2020 e il 18 marzo 2020. Un secondo aspetto che viene segnalato è la rapida attivazione di misure protettive anti COVID, che hanno modificato profondamente le condizioni di assistenza dei pazienti, con forti restrizioni o addirittura l’abolizione delle visite di parenti, la sospensione dei pasti consumati assieme, delle autorizzazioni per uscite temporanee e le limitazioni all’accesso ai locali ad uso collettivo (televisione, relax, ecc.), oltre che l’eliminazione delle attività di gruppo. Le misure di contenimento erano state accompagnate anche da una riduzione della presenza in servizio delle diverse figure professionali, essenziali per i processi di cura, con inevitabili cambiamenti che hanno messo a rischio di scadimento le cure erogate nelle unità psichiatriche. Nel contempo, sia agli ospedali pubblici che privati è stato disposto di costituire unità “PSY/COVID”, destinate a ricoverare pazienti psichiatrici con COVID-19. A livello nazionale sarebbero state create 89 unità, per circa 1080 posti letto, nelle quali gli psichiatri sono stati affiancati dagli altri specialisti esperti nell’assistenza ai pazienti affetti da COVID-19. In queste unità l’utenza assistita è stata primariamente costituita da pazienti psichiatrici COVID positivi in stabilità respiratoria, ma con possibilità, in base a protocolli specifici, di trasferirli in strutture di cura intensiva multidisciplinare in caso di aggravamento. Alcuni ospedali hanno anche istituito unità di quarantena, al fine di controllare il rischio epidemico nei pazienti in ingresso, nel contesto di una scarsa disponibilità delle misure protettive e dei test. Con l’evoluzione successiva dell’epidemia, è poi sembrato utile ripristinare alcune procedure, come ad esempio consentire l’accesso alle visite dei familiari, pur nel rispetto delle misure protettive, con un cauto ripristino delle autorizzazioni di uscita per i pazienti o la ripresa di attività di gruppo in condizioni di distanziamento. Con la diminuzione del primo picco epidemico, alcune unità PSY/COVID sono state raggruppate o hanno ridotto la loro capacità, consentendo ad alcuni ospedali di riguadagnare un margine di posti letto ordinari disponibili. Gli autori, prudentemente e quasi profeticamente, hanno osservato che la prospettiva di una seconda ondata pandemica rimaneva un possibile scenario, tale da suggerire di richiedere di non “disarmare” del tutto il sistema predisposto inizialmente per gestire la pandemia. Gli autori si soffermano anche sulla questione dello screening sistematico dei pazienti ospedalizzati, osservando che, se comprensibilmente non era possibile attuare diffusamente questo screening a livello della popolazione generale, restava assolutamente opportuno per tutte le persone sottoposte a ricovero, compreso quello psichiatrico, tenuto anche conto delle loro frequenti comorbilità e dell’aumentato rischio di contagio all’interno di un luogo come un servizio ospedaliero. Gli stessi autori, peraltro, riportavano alcuni dati riguardanti la curva epidemica delle popolazioni ricoverate in psichiatria, che non sembrava seguire esattamente la stessa dinamica della popolazione generale, per una incidenza di circa il 4% per forme sintomatiche di COVID-19 in pazienti psichiatrici rispetto al tasso del 14% tra infermieri e medici. Questi dati hanno dato luogo a diverse ipotesi, ad esempio di un possibile effetto protettivo di alcuni tipo di farmaci psicotropi o della nicotina o anche della riduzione dei contatti sociali che caratterizza molti pazienti psichiatrici. Quest’ultima spiegazione viene riportata dagli autori anche per ipotizzare la possibilità del verificarsi di un picco epidemico ritardato nei pazienti con disturbi mentali, nel momento della riesposizione al contagio al termine delle misure di confinamento. Anche l’assistenza ambulatoriale ha subito in Francia un’ampia riorganizzazione. La priorità è stata quella di continuare a garantire l’offerta di cure favorendo il ricorso all’assistenza a distanza, evitando le visite faccia a faccia e limitando le visite domiciliari solo quando assolutamente necessario; infatti più dell’80% delle interviste e delle consultazioni è stato effettuato tramite teleassistenza. Il mondo sanitario, che secondo gli autori è ancora ostile alla trasformazione digitale, ha dovuto quindi adattarsi rapidamente, dando luogo ad esempio alla creazione di siti dedicati come “Stop Blues”, “Pacifica” o a piattaforme digitali come “Covid-Blues”, “covidecoute.org”. Uno dei problemi principale durante questo periodo è stato quello di evitare le recidive anche a causa di dimissioni premature dall’ospedale o della chiusura di molti centri diurni, day hospital e dei centri riabilitativi. Infatti, la chiusura di molte strutture extra-ospedaliere ha portato alla riduzione degli standard tradizionali di assistenza. In molti casi è stato possibile implementare la psicoeducazione e gli interventi riabilitativi grazie alle applicazioni digitali e al monitoraggio da remoto del “case management”. Una priorità è stata anche l’impedire che i pazienti psichiatrici perdessero il diritto di accesso alle cure mediche a causa del doppio stigma costituito dall’essere affetti da una patologia psichiatrica e da COVID-19. Gli estensori dell’articolo ricordano che in Francia più di 2,5 milioni di persone è curato nella psichiatria pubblica e convenzionata, per cui è stato necessario rafforzare e privilegiare la collaborazione sia con i medici di famiglia che con farmacisti o altri professionisti, tenendo conto del forte intreccio di problemi medici e psichiatrici. Si è cercato in alcune situazioni di dare a ogni paziente una assistenza personalizzata con obiettivi assistenziali mirati attraverso dei team di cure domiciliari intensive. Gli autori concludono il loro articolo con la considerazione che il “post COVID” sarà “psichiatrico, necessariamente psichiatrico”, in rapporto alle conseguenze inevitabili a lungo termine della pandemia sulla salute mentale della popolazione.


La situazione in USA

La situazione negli USA viene descritta da Bojdania et al.15 partendo dalla constatazione che la pandemia ha avuto nel Paese un impatto forte sia sull’accesso alle cure che sulla qualità e sul modo in cui vengono erogate le cure stesse. In alcuni casi vi sono state modificazioni anche nell’applicazione delle norme legali e delle regole sulla privacy. Per quanto concerne l’assistenza ambulatoriale, i cambiamenti principali sono consistiti nel passaggio alle modalità virtuali di assistenza. Ciò ha richiesto aggiustamenti sia nella programmazione dei servizi, sia su una rapida formazione su come usare i sistemi di comunicazione a distanza da parte degli operatori. Soprattutto i contatti telefonici sono diventati uno standard generalmente accertato nei vari Stati americani. Queste trasformazioni sono state ampiamente ben accolte ma talora sono risultate anche molto impegnative, soprattutto per la scarsa familiarità di molti operatori con determinate tecnologie, per la lentezza delle connessioni in rete, per il malfunzionamento delle apparecchiature, e soprattutto per il problema emergente della scarsa sicurezza telematica, con la possibilità della perdita di riservatezza. Gli estensori dell’articolo non mancano di sottolineare che le nuove tecnologie si sono anche rivelate delle sfide anche per i pazienti, che non sono sempre in grado di accedervi tramite le reti internet. Se molti pazienti statunitensi sembrano essersi adattati alle visite virtuali, dimostrando di poterne beneficiare maggiormente rispetto al passato, grazie alla eliminazione delle barriere di trasporto, è anche vero che molti altri hanno esplicitamente affermato di preferire gli appuntamenti di persona; ad esempio, è successo che gli assistiti abbiano manifestato un certo timore nell’iniziare una cura farmacologica senza una visita di persona. Un aspetto che viene segnalato nell’articolo riguarda in fatto che in molte aree degli USA si è avuta una carenza di alcuni farmaci, e che tutte le forme di ospedalizzazione parziale hanno subito un irrigidimento dei criteri di ammissione, a partire dalla necessità di dimostrare l’assenza di positività COVID. Un problema specifico che viene enfatizzato riguarda la categoria dei pazienti anziani, non solo per la loro maggiore vulnerabilità psicologica alle misure di distanziamento/isolamento, ma anche per la loro minore propensità e capacità di accedere agli strumenti telematici. Per quanto riguarda i pronto soccorso, negli USA si è assistito ad un aumento degli accessi per problemi psichiatrici, in buona parte per le difficoltà che la pandemia ha determinato nel mantenere la continuità delle cure sia a livello pubblico che privato. In molti servizi di pronto soccorso, al momento del triage sono stati inseriti dei protocolli di screening riguardanti lo stato di salute mentale oltre che la valutazione del rischio di esposizione al virus. D’altro canto, non pochi pazienti hanno espresso il timore di contrarre il coronavirus mentre erano in attesa per il soccorso, situazione che spesso non ha fatto che aggravare i problemi psicopatologici in atto. In diversi ospedali statunitensi, proprio al fine di ridurre i rischi sia per i pazienti che per il personale, molte consultazioni psichiatriche in pronto soccorso sono state condotte dallo specialista in stanze diverse da quelle dove si trovava il paziente, tramite sistema di videochiamata, oppure effettuando il colloquio in spazi esterni al pronto soccorso mantenendo le distanze fisiche. Anche l’assistenza ai pazienti in regime di ricovero psichiatrico ospedaliero ha subito negli USA notevoli modifiche, a seguito della introduzione dei protocolli di sicurezza suggeriti dai CDCs, Centres of Disease Control nazionali. Alcuni gruppi di esperti hanno suggerito protocolli relativi alla gestione della pandemia COVID specifici per le unità ospedaliere di psichiatria, sulla base del presupposto che l’attuazione di misure di prevenzione in queste unità possono essere una vera sfida, soprattutto per il fatto che tradizionalmente fanno parte delle modalità di trattamento i colloqui vis a vis con i pazienti, le procedure di monitoraggio clinico diretto, le terapie di gruppo e simili, senza contare il fatto che nelle unità ospedaliere di psichiatria vi sono aspetti logistici da considerare, come i bagni e le camere di degenza comuni. Nei protocolli sviluppati in varie parti degli USA vi sono elementi comuni quali:

a) tipo di precauzioni relative alla diffusione della epidemia (screening, uso dei dispositivi di protezione individuale, uso di indumenti protettivi, pulizia delle superfici e disinfezione);

b) limitazione dei visitatori e la riduzione al minimo dei contatti non essenziali (ad es. con gli studenti di medicina);

c) procedure di razionalizzazione del lavoro del personale medico;

d) aggiustamenti operativi (es. creazione di stanze di isolamento, assunzione di criteri più stringenti per il ricovero psichiatrico);

e) modifiche alle terapie di gruppo (es. limitazione del numero di partecipanti, utilizzo del distanziamento fisico).


Per affrontare meglio l’emergenza, gli autori ritengono che un aspetto fondamentale è che ci sia una leadership organizzata, una comunicazione chiara e il coinvolgimento di tutte le professionalità nel processo decisionale. In alcuni Stati starebbe altresì emergendo un crescente bisogno di letti psichiatrici. Anche negli USA in molti ospedali sono state aperte unità psichiatriche ospedaliere specializzate per pazienti acuti infettati dal COVID-19, purché non tanto gravi da richiedere il ricovero nelle unità di malattie infettive, che avviene solo in caso di peggioramento. Un aspetto negativo che gli autori sottolineano nella gestione attuale dei ricoveri è costituito dal fatto che le minori interazioni faccia a faccia, la diminuzione delle attività programmate, i pasti effettuati in camera invece che nelle sale in comune e i divieti di visita da parenti ed amici, probabilmente, hanno contribuito a ridurre l’efficacia che in genere ha di per se il ricovero in un ambiente ospedaliero per molti pazienti. Peraltro, un ulteriore problema che viene segnalato sarebbe costituito dalla difficoltà di ottenere la collaborazione dei familiari nei programmi di dimissione di pazienti che sono stati infettati dal coronavirus, in gran parte per la paura del contagio. Gli estensori dell’articolo esprimono una forte preoccupazione per il diffondersi di quella che viene definita la “pandemia di solitudine”, correlabile all’aumento della disconnessione sociale che potrebbe persistere anche dopo la risoluzione della pandemia e che potrebbe contribuire all’aumento dei casi gravi e dei ricoveri psichiatrici nel prossimo futuro. L’articolo dedica uno spazio anche ai servizi di Psichiatria di Consultazione e Liaison negli ospedali generali. Le stesse modalità operative precedentemente descritte per le consulenze nei pronto soccorso vengono in genere adottate per i reparti, per i quali la consulenza psichiatrica standard, effettuata mediante visita di persona, è stata in genere sostituita da modalità virtuali. Il ruolo della psichiatria di consultazione negli ospedali generali viene considerato oggi come oggi importantissimo soprattutto per la gestione dei pazienti cronici più esposti a rischio di COVID e di complicanze psicopatologiche. I programmi di assistenza psichiatrica di comunità, implementati variamente nei vari Stati dell’Unione, incontrano attualmente grandi difficoltà, proprio in quanto rivolti soprattutto a pazienti con disturbi mentali severi che sono quelli a maggior rischio di morbilità e mortalità da COVID-19, data la loro maggiore vulnerabilità, la mancanza di adeguate abitudini igieniche, la condizione di senzatetto e per condizioni di vita spesso caratterizzate da promiscuità, tutti aspetti che facilitano la trasmissione virale. Chi lavora per questi programmi ha dovuto per necessità adattare il modo in cui viene erogata l’assistenza. Gli autori riportano che in un sondaggio condotto su 32 organizzazioni sanitarie senza scopo di lucro della California, che si occupavano di pazienti con disturbi mentali gravi, ben l’87% non aveva le attrezzature necessarie per condurre la telemedicina e denunciava una mancanza generale di accesso ai DPI per il personale. In molte realtà simili, a causa del calo dei servizi e delle entrate, parte del personale è stato licenziato, anche se in alcuni Stati sono state implementate delle riforme politiche e normative che hanno stabilito la remunerazione delle prestazioni a distanza e finanziamenti per il personale addetto alla assistenza residenziale, per l’accesso ai farmaci e per i servizi di comunità. Nella lunga disamina dell’impatto della pandemia sui servizi americani, non viene trascurato il peso dello stress emotivo a cui sono sottoposi gli operatori psichiatrici, cosi come emerso da diverse survey effettuate in tutto il Paese. Gli eventi stressanti che impattano sul personale sanitario riguardano sia la vita personale (ad es. a un membro della famiglia viene diagnosticato il COVID-19 o la paura di perdere un persona amata) sia il proprio lavoro (nuovi protocolli da seguire, indicazioni sempre mutevoli e poco chiare sui dispositivi di protezione individuale, ecc.), o l’interazione di entrambi i fattori (es. essere esposti a un paziente con COVID-19, venire contagiati e poi doversi mettere in quarantena e isolarsi dalla famiglia per 14 giorni). Peraltro, l’aumento crescente della necessità di cure per problemi di salute mentale sta comportando negli USA un prolungamento sempre maggiore dell’orario di lavoro e, in alcuni casi, la cancellazione delle ferie. Vengono anche segnalati certi fenomeni che starebbero diventando sempre più evidenti, come ad esempio il risentimento crescente di infermieri o medici che lavorano negli ospedali verso coloro che lavorano a livello ambulatoriale. In modo interessante, l’articolo include una parte che riguarda la formazione specialistica, riportando che il Consiglio di accreditamento per l’istruzione medica laureata (ACGME) già a marzo 2020 ha rivisto i requisiti dei programmi di formazione al fine di favorire un maggiore uso della tele-psichiatria e della tele-supervisione, che ha consentito agli specializzandi di fornire assistenza ai pazienti riducendo al contempo il rischio potenziale di esposizione sia al paziente che ad altri operatori sanitari. Inoltre ai medici informazione specialistica viene garantita la sospensione di diversi obblighi del programma formativo, rendendoli più flessibili.


La situazione in Italia

L’Italia è stato il primo Paese occidentale a essere gravemente colpito dalla pandemia COVID-19. La necessità di controllare la diffusione dell’infezione ha indotto il governo ad adottare una serie di misure simili a quelle adottate pressoché ovunque in tutto il mondo (es. confinamento domiciliare volontario o obbligatorio, restrizione alle riunioni di grandi gruppi di persone, cancellazione di tutti gli eventi pubblici, limitazioni ai viaggi nazionali e internazionali). Il 31 gennaio 2020 il Governo italiano ha dichiarato un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale e dal febbraio 2020 è stata emanata una serie di decreti, sfociati infine il 21 marzo in un lockdown nazionale, cessato il 18 maggio 2020. Il nostro Paese è stato a lungo uno dei più colpiti al mondo. Infatti, secondo i dati ufficiali forniti dall’Istituto Superiore di Sanità italiano, è arrivato al culmine della prima fase della pandemia ad ad avere il terzo più alto numero di infezioni a livello internazionale, dietro solo agli Stati Uniti d’America e alla Spagna, e il secondo più alto numero di morti dopo gli Stati Uniti d’America.16 L’Italia stava uscendo dalla fase critica dell’epidemia, anche se i numeri restavano impressionanti: il 7 luglio 2020 il nostro Paese era ancora l’undicesimo al mondo e il secondo in Europa dopo il Regno Unito per numero totale di casi confermati, e il quarto nel mondo e il secondo in Europa dopo il Regno Unito per numero di morti.17 La situazione attuale è divenuta estremamente preoccupante, per il crescente numero di contagi. Attualmente l’Europa è infatti la Regione che ha segnalato la maggior proporzione di nuovi casi a livello globale (38%, n = 927.433), con tre volte in più di casi al giorno rispetto al picco di aprile, e ricoveri ospedalieri in aumento, sebbene il numero di decessi giornalieri rimanga cinque volte inferiore; in questo scenario Regno Unito, Federazione Russa, Cechia e Italia sono i Paesi che continuano a segnalare un’elevata incidenza di nuovi casi. Collettivamente, questi cinque paesi contribuivano a oltre la metà di tutti i casi segnalati nella settimana fra il 12 e il 18 ottobre del 2020.18

L’epidemia ha indubbiamente messo e sta mettendo a dura prova il Sistema Sanitario Nazionale, inclusi i Servizi di salute mentale, suscitando gravi preoccupazioni circa la capacità del sistema di rispondere efficacemente ai bisogni della popolazione. Il mondo della psichiatria italiana ha rapidamente reagito alla pandemia attraverso le sue Società scientifiche, che hanno fornito delle linee guida operative, peraltro assunte esplicitamente a modello anche da altri Paesi.19-21 Sin dall’inizio della pandemia sono apparsi i primi articoli che illustravano in modo narrativo gli effetti della pandemia e delle misure attuate dal Governo sulla salute mentale della popolazione e i riflessi sul sistema della salute mentale. Sani et al.,22 dopo aver ricordato che in Italia circa il 25% del carico complessivo di malattia è attribuito a disturbi neuropsichiatrici e il ruolo dei dipartimenti di salute mentale, annotavano come questi ultimi stavano facendo fronte all’emergenza attraverso il monitoraggio clinico a distanza via internet. Gli autori segnalano anche come lo stress della pandemia e l’isolamento sociale forzato della popolazione e il lutto per la perdita di propri cari dovuta al COVID costituivano seri fattori di rischio di recidiva, di nuovi episodi e di comportamenti suicidari, mettendo in guardia sugli imprevedibili effetti del drammatico cambiamento della vita normale e dell’incredibile carico di stress che gli operatori sanitari stavano affrontando quotidianamente, sottolineando come dappertutto stessero sorgendo iniziative per lo più spontanee da parte dei professionisti della salute mentale rivolte a dare supporto psicologico e psichiatrico agli operatori sanitari e alla popolazione generale. Gli autori concludevano auspicando e rivendicando la necessità della partecipazione attiva dei professionisti della salute mentale alle attività delle varie task force in un periodo così critico. Fagiolini et al.,23 nell’evidenziare come la diffusione rapida dell’epidemia abbia colto di sorpresa il mondo sanitario italiano, segnalavano come in Italia ogni dipartimento di salute mentale (DSM) aveva inizialmente reagito nei modi che erano sembrati più appropriati, descrivendo l’esperienza del DSM di Siena, dove quasi il 90% delle visite ai pazienti ambulatoriali era stato subito trasformato in contatti per via telematica, pur non essendovi stata sino ad allora alcuna esperienza in merito, o via telefono, che rimaneva la via più semplice e alla portata di tutti i pazienti; data la assoluta carenza iniziale di DPI, gli operatori si erano protetti con maschere facciali fatte artigianalmente, pur nella consapevolezza della loro non conformità a standard di sicurezza, e a fare uso a scopo protettivo di occhiali neutri o da sole, sin quando non furono disponibili quelli regolamentari. Gli stessi autori ricordano come tutte le riunioni di staff in persona erano state modificate in meeting virtuali usando la piattaforma Zoom, e come nei centri di salute mentale (CSM) erano subito stati riorganizzati gli spazi di lavoro al fine di garantire una distanza interpersonale di 2 metri, assieme ad una rimodulazione delle modalità stesse di lavoro, ad esempio rispettando l’obbligo di non parlare durante i contatti di stretta vicinanza (es. effettuando un esame obiettivo, eseguendo un ECG, ecc.). Per quanto riguarda le strutture di ricovero, i 2 Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC) erano destinati a pazienti psichiatrici non COVID positivi; in caso di positività, anche i pazienti psichiatrici erano stati ricoverati nelle unità COVID di terapia intensiva dell’ospedale generale, dove venivano assistiti per le problematiche psicopatologiche mediante una attività di consultazione da parte degli operatori del DSM, e dove erano state organizzate inizialmente delle stanze di isolamento ad hoc per pazienti agitati o con grave disorganizzazione comportamentale. Ciò sino a quando, per l’aumentato carico di pazienti, non furono create anche delle stanze di isolamento specifiche per pazienti gravi COVID positivi all’interno degli SPDC. Infine gli autori, sulla base della crescente presenza di forme di disagio ansioso e depressivo negli operatori sanitari, descrivono la iniziativa del DSM di istituire una attività di supporto di gruppo per via telematica, generalmente collocata in tarda serata, dopo la fine della giornata di lavoro. Serafini et al.,24 basandosi sulla esperienza di due gruppi di lavoro, a Bergamo e Brescia, e partendo dalla constatazione della particolare vulnerabilità delle persone anziane agli effetti della infezione da COVID-19, riportano la rapida crescita di interventi psichiatrici in pazienti anziani con infezione da COVID-19 nei reparti di terapia intensiva. Soprattutto in rapporto alla comparsa di gravi forme di delirium (principalmente ipercinetico) presente in circa il 30%-50% dei casi fra gli anziani ricoverati, verosimilmente perché più esposti al rischio di stati confusionali per una maggiore vulnerabilità a fattori ambientali (l’isolamento sociale e la distanza dai familiari, la durata prolungata di permanenza in unità di terapia intensiva o subintensiva, le difficoltà di comunicazione a causa di dispositivi terapeutici) e a fattori individuali (maggiore neurotropismo del COVID-19, menomazioni cognitive preesistenti, maggiore frequenza di condizioni mediche concomitanti e di polifarmacoterapia). Accanto a report locali come quelli appena citati, sono via via comparsi report di livello regionale, riguardanti soprattutto il Nord-Italia e la Lombardia, in particolare, che è stata nella fase 1 di gran lunga la regione italiana più colpita. Clerici et al.25 hanno riportato i tassi di ammissione a 7 SPDC localizzati in Regione Lombardia nei 40 giorni dall’inizio dell’epidemia di COVID-19 (21 febbraio-31 marzo 2020), rispetto a periodi di pari durata, sia nel 2020 che nel 2019. I risultati dello studio hanno dimostrato che c’è stata una marcata e significativa riduzione dei tassi di ammissione psichiatrica nel periodo dei 40 giorni dall’inizio della epidemia. Questa riduzione era dovuta in gran parte alla diminuzione dei ricoveri volontari, vista la scarsa riduzione dei trattamenti obbligatori, e risultava coinvolgere tutti i gruppi diagnostici, ad eccezione di un gruppo di diagnosi definite “Altro”, che include disturbi d’ansia, disturbi neurocognitivi ed altri. Sulla base dei dati raccolti, gli autori ipotizzavano che la riduzione dei tassi di ricovero volontario, peraltro già evidenziata in altre pandemie, può essere dovuta alla paura degli ospedali, visti come possibili siti di contagio, nonché a un cambiamento delle soglie di problemi comportamentali che fungono da trigger per richieste di ricovero da parte dei parenti e familiari o degli invii da parte dei medici curanti, anche se non risultava chiaro, sulla base dei dati dello studio, se la riduzione dei ricoveri sia stata maggiormente dovuta dalla pandemia in se e per se o piuttosto dal blocco imposto a causa della pandemia stessa. Percudani et al.26 riportano una analisi del funzionamento dei servizi di salute mentale in Lombardia durante la prima fase della pandemia, segnalando che l’attività nei CSM era stata mantenuta per i pazienti affetti da gravi disturbi mentali, da gravi problemi sociali o destinatari di sentenze giudiziarie. Per questi pazienti, l’attività è stata mantenuta con particolare attenzione al monitoraggio clinico e alla somministrazione di farmaci, avendo attenzione a fissare gli appuntamenti in un orario prestabilito evitando così contatti stretti nelle sale di attesa. Gli interventi domiciliari e fuori sede, invece, erano stati garantiti solo per situazioni urgenti. Le attività che coinvolgono i familiari dei pazienti erano state ridotte solo a quelle ritenute essenziali venendo sostituite da contatti telefonici o video a distanza. Le attività di rete con le istituzioni esterne sono state garantite utilizzando tutte le risorse di comunicazione a distanza disponibili. Per i casi nuovi e di emergenza, è stato adottato un triage telefonico per capire il livello di urgenza della richiesta e fissare, se necessario, un appuntamento. Il triage è stato anche finalizzato a identificare possibili sintomi o altri sospetti indicatori di contagio. Tutto il lavoro all’interno delle strutture psichiatriche residenziali era proseguito normalmente, anche se le attività esterne erano state sospese, compresi i rientri a casa e i permessi di varia natura, così come le visite di parenti. In tutte le strutture è stato previsto il monitoraggio per i sintomi respiratori e altri sintomi di COVID-19, inclusa la temperatura. Per quanto riguarda le strutture ospedaliere e le unità per acuti, viene riportato che gli interventi di emergenza per problemi di salute mentale e i servizi di ricovero ospedaliero sono stati mantenuti in collaborazione con il pronto soccorso di ciascun ospedale. I ricoveri psichiatrici per pazienti negativi al COVID-19 sono rimasti operanti come al solito, mentre per i pazienti psichiatrici positivi al COVID-19 ma senza sintomi gravi sono stati organizzati reparti psichiatrici con aree dedicate, nei quali il personale è stato equipaggiato e addestrato all’uso dei dispositivi di protezione individuale. In quest’aree dedicate, è stata allestita una stanza filtro per vestirsi e svestirsi. Presso l’Ospedale Niguarda è sato adottato uno specifico protocollo per la definizione di idonei percorsi assistenziali multidisciplinari in collaborazione con Unità di Malattie infettive, anestesia e terapia intensiva.

De Girolamo et al.27 in un breve articolo descrivono l’esperienza dei DSM in Lombardia facendone discendere alcune lezioni apprese durante la crisi. Gli autori ricordano le molte sfide si sono verificate nella gestione dei servizi sanitari durante la fase acuta iniziale della pandemia COVID, tra cui il fatto che in molti ospedali interi reparti, comprese alcune unità ospedaliere psichiatriche, sono stati riconvertiti per ricoverare la massa di pazienti con COVID-19, mentre molti medici e infermieri provenienti da varie specialità sono stati dirottati verso i reparti COVID-19. Inoltre, la maggior parte delle strutture diurne per i pazienti psichiatrici è stata temporaneamente chiusa, mentre nelle strutture residenziali gli ospiti hanno dovuto essere confinati nelle strutture, con forti limitazioni o l’annullamento completo delle uscite. Secondo gli autori, queste modificazioni hanno comportato notevoli sollecitazioni negative per le persone con disturbi mentali gravi. Contestualmente, in molte strutture territoriali le attività sono state limitate ai casi più urgenti mentre le visite a domicilio, una pratica comune nella maggior parte dei Dipartimenti, sono state drasticamente ridotte, anche in questo caso con conseguenze potenzialmente dannose per la salute mentale dei pazienti in carico. Peraltro, un’altra potenziale conseguenza dannosa, conseguente alla permanenza coatta al domicilio avvenuta durante il periodo di lockdown, è stata l’aumento delle ore trascorse faccia a faccia con famiglie, con la attivazione o riattivazione di forti conflitti. Tenuto conto delle esperienze acquisite, gli autori auspicano che i DSM siano dotati di tecnologie e procedure di sanità elettronica appropriate per far fronte alla pandemia in atto, assumendo una posizione di leadership nella gestione psicosociale di situazioni di crisi, grazie all’acquisizione di nuove competenze, in particolare su come informare correttamente la popolazione sui rischi, informando e formando la popolazione assistita sulle più efficaci procedure di prevenzione e gestione dei disastri, supportando il personale sanitario e i soccorritori e fornendo il sostegno psicologico a coloro che hanno subito lutti.

Un’analisi dettagliata della situazione dei servizi di salute mentale italiani viene riportata da Carpiniello et al.29,29 i quali riportano i dati di una survey condotta dalla Società Italiana di Psichiatria, che è stata effettuata mediante un questionario inviato on line ai direttori di tutti i DSM italiani, riguardante le informazioni sui CSM ed i servizi residenziali e semiresidenziali, e ai responsabili dei SPDC per quanto riguarda le unità ospedaliere. Le risposte pervenute riguardano il 52,9% dei DSM italiani e il 32,6% dei SPDC ospedalieri. I dati complessivi dimostrano una complessiva profonda rimodulazione delle attività: nel 13% dei DSM alcuni CSM sono stati chiusi e circa il 25% ha avuto un accesso limitato come ore di apertura. Solo le urgenze psichiatriche sono proseguite come di consueto, così come le consulenze per le carceri, gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori mentre tutte le altre attività hanno subito gradi variabili di rimodulazione. Pressoché tutte le visite psichiatriche ordinarie in presenza sono state sostituite da contatti da remoto; telefonate nel 100% dei casi, videochiamate nel 67% dei casi, e-mail nel 19% dei casi, con solo il 41% dei CSM italiani capaci di attivare tutte queste forme di contatto. Tutte le altre attività hanno subito una significativa diminuzione; le consulenze psichiatriche per gli ospedali generali (circa -25%), le psicoterapie individuali e di gruppo (circa -65%), interventi psicosociali e riabilitativi (ca. -90 / 95%), il monitoraggio degli ospiti in strutture residenziali (-60%) e dei soggetti autori di reato affetti da disturbi mentali assegnati (-45%). Come regola generale, le riunioni del personale sono proseguite pressoché ovunque, utilizzando laddove possibile lo strumento della videoconferenza. Il numero di day hospital e centri diurni attivi ha avuto un notevole calo (circa -80/85%). Solo le strutture residenziali sono rimaste quasi pienamente operative, anche se con limitazioni alle nuove ammissioni e dimissioni e una drastica riduzione delle attività di gruppo e in esterno. La maggior parte dei membri del personale dei CSM ha espresso forti preoccupazioni per la sicurezza. I problemi principali lamentati hanno riguardato la fornitura di dispositivi di protezione. Casi di positività al COVID sono stati segnalati fra i membri del personale e gli utenti in pari misura (ca. 52%) nei CSM italiani. Quanto agli SPDC, si è osservata una certa riduzione del numero di reparti (-13%), principalmente a causa della loro conversione in Unità COVID, e nel numero di letti disponibili (circa -30%), per la necessità di aumentare la distanza personale tra i pazienti e di allestire stanze di isolamento. Nell’88% degli SPDC si è registrata una complessiva riduzione dei ricoveri, in parte a causa dell’interruzione dei ricoveri programmati (ca. 64% dei casi). Solo l’8% degli SPDC ha segnalato un aumento dei ricoveri per trattamento sanitario obbligatorio. La stragrande maggioranza dei SPDC ha continuato a garantire consulenze psichiatriche. Per quanto riguarda le misure di sicurezza adottate, la maggior parte degli ospedali ha istituito una “area filtro” attraverso cui accedere all’ospedale. L’accesso dei visitatori è stato vietato in quasi tutti i SPDC e nella stragrande maggioranza dei casi (circa il 90%) sono stati adottati percorsi specifici per i pazienti con sospetta infezione da COVID-19. Una lamentazione generale ha riguardato la carenza di tamponi per monitorare i pazienti ricoverati e il personale. In un quinto dei SPDC i pazienti acuti con positività al virus che non erano in grado di collaborare sono stati ricoverati in SPDC appositamente istituiti per la cura di pazienti COVID +, mentre il 15% dei SPDC ha inserito questi pazienti in aree isolate del reparto. I dati raccolti indicano complessivamente che il sistema di salute mentale di comunità italiano ha cercato di mantenere la continuità delle cure dei pazienti in carico attraverso l’implementazione di contatti remoti (telefono e/o video). Le attività svolte mediante contatti a distanza sono stati il monitoraggio clinico, il supporto psicologico, l’insegnamento delle misure di sicurezza (es. distanziamento personale e lavaggio delle mani), la gestione dei trattamenti farmacologici, la raccolta di informazioni sulla salute fisica degli utenti e dei familiari, in particolare febbre e segni e/o sintomi respiratori. In alcuni CSM anche le psicoterapie individuali sono state erogate utilizzando piattaforme audiovisive. In tal modo, molte attività ordinarie di routine sono state parzialmente sostituite, ottenendo risultati relativamente soddisfacenti, sebbene non sia stato raggiunto un livello coerente di uniformità a livello nazionale. In sostanza, in modo pressoché spontaneistico e senza una precisa programmazione nazionale, è stato messo in atto il primo grande esperimento di applicazione della telepsichiatria su scala nazionale. Sebbene i dati disponibili in letteratura indichino che gli interventi di salute mentale eseguiti a distanza siano altrettanto efficaci rispetto a quelli condotti faccia a faccia, vanno tenute in conto molteplici preoccupazioni in merito a questioni di privacy e alla disponibilità di mezzi per sfruttarla (PC, reti attive) sia per gli utenti che per molti servizi. Tuttavia, al di là del notevole sforzo fatto, non si può negare che è avvenuta una sostanziale diminuzione delle attività psicoterapeutiche, psicosociali e riabilitative, il che potrebbe avere nel tempo serie ricadute negative soprattutto per le persone affette da gravi disturbi mentali, che sono certamente il segmento più vulnerabile della popolazione in circostanze come quelle attuali. Inoltre, l’impossibilità di garantire in modo adeguato e sollecito l’accesso ai CSM potrebbe aver impedito di ottenere l’aiuto da parte del sistema sanitario pubblico ad una buona parte della popolazione esposta all’impatto psicologico negativo dell’epidemia. Sul piano dei servizi ospedalieri, la riduzione dei letti è stato il prezzo da pagare per la conversione di numerosi SPDC in unità intensive per pazienti COVID-19 positivi, a causa della drammatica necessità di letti per queste ultime unità. La marcata limitazione dei ricoveri programmati e il mantenimento dei ricoveri ospedalieri solo per casi più gravi spiega solo in parte la riduzione osservata dei tassi di ospedalizzazione dovendosi anche considerare il possibile contributo di fattori aggiuntivi, come la limitazione dell’accesso agli utenti di sostanze a seguito del rigido lockdown, con conseguente cessazione o riduzione dell’effetto slatentizzante dell’uso di sostanze sulle ricadute, sia nei disturbi psicotici affettivi che non affettivi. Quanto ai ricoveri volontari, non si può negare che la paura del contagio potrebbe aver scoraggiato coloro che necessitavano di cure intensive. Peraltro, non va dimenticato che gli individui affetti da disturbi mentali possono aver incontrato una serie di ostacoli nell’accesso ai servizi sanitari a causa di una doppia discriminazione legata sia alla loro malattia mentale che all’infezione da coronavirus. La gestione di pazienti con gravi disturbi psichiatrici con sospetta o confermata infezione ha rappresentato e rappresenta una grande sfida logistica per i reparti psichiatrici, per i quali non è stato possibile adottare soluzioni univocamente applicabili ovunque. La soluzione più frequentemente applicata è stata la creazione di aree specifiche e separate all’interno dei reparti o di reparti psichiatrici specifici per pazienti COVID +, in linea con le Raccomandazioni della Società Italiana di Psichiatria per il contenimento del virus SARS-CoV-2. Una drammatica sfida durante questa emergenza è stata quella di assicurare una adeguata protezione non solo ai nostri pazienti ma anche agli operatori, che si è rivelato anche un problema etico oltre che psicologico, tenuto conto che in tutti i servizi italiani gli operatori hanno espresso forti preoccupazioni e che si ha a che fare con un problema di salute pubblica, in quanto gli operatori sanitari infetti per i quali il contagio non viene individuato mediante tampone contribuiscono a diffondere ulteriormente l’infezione. La indagine promossa dalla Società Italiana di Psichiatria ha messo dunque in luce la capacità del sistema di salute mentale di reagire spontaneamente e rapidamente alla prima ondata della pandemia, come i risultati della indagine dimostrano ma con diverse luci e molte ombre. È lecito temere che queste possano accrescersi nel prossimo futuro, per l’avanzare minaccioso della seconda ondata della pandemia attualmente in corso e per le pesantissime ricadute sulla salute mentale degli italiani a causa della drammatica crisi economica in atto. L’inevitabile incremento di nuovi casi e l’aggravamento atteso dei casi già in carico rischiano di portare al collasso un sistema già gravemente sottodimensionato e colpito molto più di altri ambiti sanitari dai gravi tagli degli ultimi venti anni. Questo rende indilazionabile un forte impegno dello Stato per preservare e potenziare con tutti gli investimenti necessari il nostro sistema di salute mentale di comunità, uno dei pochi veramente attivi al mondo, focalizzando in maniera concreta, non nominalistica, l’attenzione sulla preservazione della salute mentale non meno che della salute fisica della popolazione.


Uno sguardo di insieme e le prospettive future

Da una lettura complessiva dei vari articoli pubblicati nella letteratura internazionale emerge una serie di aspetti comuni così sintetizzabile. Innanzitutto pressoché ovunque i servizi hanno dovuto subire una più o meno profonda riorganizzazione, consistente, per quanto riguarda i servizi di psichiatria di comunità, in una notevole riduzione delle attività, solo in parte compensata dalla cosiddetta “telepsichiatria”, della quale sono state segnalate peraltro non poche difficoltà e limitazioni (tabella III).




La riduzione delle attività è peraltro accaduta proprio nel momento di maggior bisogno, quando la popolazione generale ha dovuto subire un profondo distress legato alla pandemia, con conseguenze notevoli sulla salute mentale. Analogamente, è stata segnalata pressoché ubiquitariamente una contrazione delle attività sei servizi ospedalieri, molti dei quali sono stati riconvertiti in unità di terapia intensiva o semintensiva per pazienti affetti da COVID-19 o hanno dovuto ridurre i posti letto per consentire l’applicazione delle regole di distanziamento personale a livello intraospedaliero. Un aspetto di particolare difficoltà è stata la gestione intraospedaliera dei pazienti affetti da disturbi mentali gravi COVID positivi o sintomatici, per i quali l’opzione prevalente a livello internazionale è stata la creazione di specifiche unità psichiatriche per pazienti COVID positivi o la creazione nei reparti psichiatrici di aree separate ed isolate. Ovunque, in ogni caso, sono state notevoli le difficoltà costituite dalla iniziale carenza di dispositivi di protezione per operatori e pazienti e per garantire, specie a livello intraospedaliero, il rispetto delle regole di distanziamento e l’osservanza delle regole di protezione da parte dei pazienti acuti. Peraltro, pressoché ovunque è stato segnalato l’effetto del cosiddetto “doppio stigma”, cioè la discriminazione nell’accesso alle unità di terapia intensiva e semintensiva per i pazienti affetti da disturbi mentali e sindrome da SARS-CoV-19. Nei paesi dove è quasi inesistente una rete di servizi di comunità, è stata invocata la loro creazione per affrontare adeguatamente i bisogni di cure della popolazione generale, profondamente colpita nella salute mentale dal COVID; nei Paesi in cui questa esiste, come l’Italia, si è dovuta registrare la difficoltà di mantenere la usuale operatività assistenziale, laddove si è dovuto rinunciare a gran parte delle attività faccia a faccia, individuali e di gruppo (colloqui clinici, psicoterapie, interventi psicoeducativi e di tipo riabilitativo) che costituiscono il core della assistenza psichiatrica. A fronte del rafforzamento dei servizi di salute mentale auspicato fortemente dal direttore generale dell’OMS, e del severo impatto negativo sulla salute mentale delle genti del mondo a seguito della pandemia e delle sue drammatiche conseguenze socioeconomiche,1 in molti Paesi in difficoltà economiche come l’Italia, si teme che l’appello del Dr. Ghebreyesus rimanga lettera morta, e che, dopo che venti anni di tagli alla sanità pubblica che hanno creato dei veri e propri vuoti, emersi in modo lampante durante la corrente pandemia, lo Stato allochi gran parte degli investimenti sui servizi fondamentali per affrontare la pandemia, ovvero le terapie intensive e semintensive, e per coprire le enormi spese farmaceutiche per vaccini e altre terapie innovative, relegando ancora la salute mentale al ruolo di “cenerentola” del sistema sanitario. Un importante sguardo sul futuro è quello offerto da un gruppo di prestigiosi esperti internazionali, che ha recentemente pubblicato un articolo dal significativo titolo “Come dovrebbe cambiare la salute mentale a seguito della pandemia da COVID-19”.30 Nell’articolo su discute degli “adattamenti sostenibili” nella erogazione dei servizi di salute mentale, partendo da considerazioni etiche e di diritto e dal rischio della già citata “doppia discriminazione”, che potrebbe limitare l’accesso a interventi sanitari, soprattutto in caso di limitazione di risorse, e dal timore di possibili tagli futuri ai servizi, di oneri aggiuntivi sproporzionati per le cure, di accesso ridotto ai servizi, di supporto finanziario inadeguato alle persone in difficoltà, e della riesacerbazione delle disuguaglianze nell’accesso all’assistenza sanitaria. Gli autori segnalano inoltre la necessità di un maggiore sostegno alla famiglia e al caregiver, esprimendo preoccupazione per le disparità etniche e razziali nell’accesso all’assistenza, anche nel settore della salute mentale. Viene suggerito che occorre un coinvolgimento sempre maggiore degli utilizzatori dei servizi, pazienti, famiglie e caregiver, che devono sentirsi autorizzati ad assumersi sempre più la responsabilità del loro percorso verso la recovery, aspetto questo oggi più importante che mai, in una situazione di accesso ai servizi limitato. Una attenzione speciale viene data ai bisogni a lungo termine che emergeranno nel settore della salute mentale, come ad esempio su come mitigare gli effetti sulla salute mentale della pandemia COVID-19, per la quale vengono suggerite varie strategie, come ad esempio il monitoraggio dello stato di salute mentale delle comunità attraverso lo screening di gruppi selezionati a rischio oppure attraverso l’utilizzo della “fenotipizzazione digitale”, al fine di superare i limiti e le difficoltà dei metodi di screening tradizionali a livello di popolazione generale. Per superare le limitazioni nell’accesso diretto alle cure, viene sicuramente suggerito un ricorso sempre maggiore degli interventi “da remoto”, ma ne vengono anche sottolineati tutti i limiti e difficoltà, per superare le quali viene suggerito di sfruttare le conoscenze, le esperienze e le soluzioni già adottate dai Paesi come Canada ed Australia che hanno con una ormai lunga storia di implementazione di servizi digitali, avendo essi popolazioni ampiamente disperse. Un aspetto importante che viene sottolineato riguarda gli adattamenti che sono stati implementati nei servizi in risposta alla crisi del COVID-19. In relazione ad essi, viene ritenuto essenziale valutare sistematicamente i loro effetti con indicatori di esito definiti, prima di pianificare e sviluppare nuove pratiche. Un esempio che viene fornito è fare un confronto dei dati sulla trasmissione della morbilità e mortalità da COVID-19 nelle persone con disturbi mentali con quelli corrispondenti nella popolazione generale, per cercare di chiarire quali procedure controllano efficacemente la diffusione della malattia fra i gruppi di persone affette da disturbi mentali, quali approcci hanno il maggiore effetto positivo sulla morbilità e mortalità associate a COVID-19 e quali strategie dovrebbero avere la priorità se una situazione simile si verificasse nuovamente in futuro. Viene infine indicata come una priorità il mantenimento dei servizi esistenti e la promozione di nuove pratiche finalizzate a facilitare l’accesso ai servizi e a fornire un’erogazione di servizi conveniente ed efficace sia alle persone che hanno già disturbi mentali che a coloro che li hanno sviluppati durante la pandemia. Si suggerisce anche che l’erogazione di servizi deve essere per quanto possibile personalizzata, che le pratiche efficaci già in atto dovrebbero essere perfezionate e ampliate e dovrebbero essere riconosciuti sia l’utilità che i limiti di strumenti molto usati come ad esempio il supporto tra pari e l’assistenza sanitaria distanza. Viene anche sottolineata infine la rilevanza della misurazione di routine dei risultati significativi e della valutazione dei servizi. Viste le profonde implicazioni economiche della pandemia COVID-19 viene ricordato dagli autori quanto importante sia acquisire la consapevolezza dei rischi legati alla promozione di soluzioni economiche per ampliare l’accesso alle cure per la salute mentale, mettendo in guardia rispetto ad un’assistenza di bassa qualità basata sull’accessibilità economica e priva di una valutazione della qualità e del monitoraggio dei bisogni e dell’efficienza, che secondo gli autori potrebbe solo contribuire ad aumentare le disuguaglianze e a peggiorare la salute mentale a livello globale.


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