“Psicobesità” e disturbi della nutrizione
e dell’alimentazione
emanuela bianciardi, cinzia niolu
Cattedra di Psichiatria, Dipartimento di Medicina dei Sistemi,
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”



RIASSUNTO
L’obesità è una malattia ad andamento cronico recidivante la cui estesa e rapida diffusione è stata paragonata a quella di un’epidemia: la “globesity”. Negli individui affetti sono state riscontrate alterazioni funzionali cerebrali responsabili di deficit della regolazione omeostatica del peso corporeo, deficit nei sistemi di ricompensa, della regolazione emotiva, della memoria, dell’attenzione e delle funzioni cognitive. Pertanto, la diagnosi e il trattamento dell’obesità e dei possibili disturbi della nutrizione e dell’alimentazione correlati non può essere “brainless”. In questo articolo sono descritte le caratteristiche fisiopatologiche cerebrali, dell’asse intestino-cervello e del comportamento alimentare correlate connesse con il concetto di “psicobesità”.
Parole chiave: psicobesità, obesità, disturbo da alimentazione incontrollata, dipendenza da cibo, immagine corporea, obesità edonica e metabolica, stigma.


SUMMARY
“Psychobesity” and nutrition and eating disorders
Obesity is conceived as a chronic relapsing condition affecting a high percentage of the global population, leading to negative social and health consequences now termed “globesity”. Individuals suffering from obesity display brain dysfunctions implicated in homeostatic regulation, reward, emotion, memory, attention, executive function, and styles of eating. Thus, approaching and treating obesity cannot remain “brainless”. This paper reported the abnormalities of brain systems, the gut-brain axis and eating behaviors correlated with the “psychobesity” point of view.
Key words: psychobesity, obesity, binge eating disorder, food addiction, body image, hedonic and metabolic obesity, stigma.


introduzione
L’obesità è una patologia complessa, multifattoriale ad andamento cronico-recidivante, rappresenta una delle principali cause di ridotta aspettativa di vita a livello mondiale ed è correlata ad un altissimo tasso di invalidità e ad una marcata compromissione del funzionamento globale dell’individuo.1 È un problema medico tuttora “irrisolto” che a sua volta favorisce l’insorgenza o peggiora le numerose e preesistenti condizioni cliniche patologiche.
La diagnosi si basa sul rapporto tra il peso corporeo e il quadrato dell’altezza, indice BMI (Body Mass Index o indice di massa corporea-IMC) superiore a 30, con una classificazione in vari livelli di gravità: obesità di I grado con BMI compreso tra 30 e 34,99; obesità di II grado con BMI tra 35 e 39,99; obesità di III grado con BMI > 40; super-obesità > 50; super-super-obesità con BMI > 60.
Questa classificazione, utilizzata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), è tuttora in discussione a livello clinico e di ricerca per la non lineare corrispondenza della gravità del BMI con il quadro clinico. Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi lavori che smentiscono la correlazione tra il BMI e l’aumento di mortalità, fino all’introduzione del concetto di “paradosso dell’obesità”, basato sul riscontro di un’associazione inversa tra il BMI e la mortalità in specifiche condizioni (tra cui emodialisi, malattie cardiovascolari, ipertensione, ictus, diabete, broncopneumopatia cronica ostruttiva, alcuni tipi di chirurgia) in cui il peso in eccesso rappresenterebbe un fattore protettivo di mortalità.2 A partire da queste osservazioni, sono stati sviluppati i concetti di “obesità metabolicamente sana” (Metabolically healthy obesity-MHO), ovvero persone con BMI > 30 ma senza sindrome metabolica (diabete di tipo 2, dislipidemia e ipertensione), migliore sensibilità all’insulina, ridotto stato infiammatorio cronico e di “normopeso metabolicamente obeso” (MONW), ovvero individui normopeso con caratteristiche fenotipiche correlate all’obesità.
A livello clinico, il dato più rilevante da individuare è il “fenotipo non sano”, caratterizzano da insulino-resistenza, steatosi epatica, infiammazione e indici più elevati di adiposità centrale.3
Ciò nonostante, è chiaro che il fenotipo cosiddetto metabolicamente sano sembra essere una condizione transitoria e non stabile nel tempo che presenta nel lungo termine un rischio cardiovascolare significativo.4
È stato ampiamente dimostrato che la progressione da obesità sana a non sana aumenti costantemente con l’aumentare della durata del follow-up; i dati più solidi confermano il ruolo di sovrappeso e obesità nell’aumento di mortalità per qualsiasi causa,5 smentendo le speculazioni su ipotetici effetti metabolici protettivi di un aumento del grasso corporeo in individui apparentemente sani.
Le definizioni moderne di “obesità patologica” si basano su misurazioni più specifiche della composizione corporea e della distribuzione del grasso corporeo: l’indice WHR = waist/hip ratio, rapporto tra circonferenza vita e fianchi; la waist circumference, circonferenza della vita espressa in centimetri; il diametro sagittale addominale anteroposteriore; tecniche radiografiche: DEXA, TAC, RMN; bioimpedenziometria (BIA); tecnologia laser (VISCAN) per la misurazione del grasso intraddominale.


dati epidemiologici e costi dell’obesità
Analizzando i tassi di incidenza e prevalenza di questa patologia, è ormai assolutamente evidente che ci troviamo di fronte ad una vera e propria epidemia mondiale dell’obesità.6
Inoltre, l’eccesso di peso causa un numero maggiore di vittime rispetto alla denutrizione, e la prevalenza dell’obesità, soprattutto infantile, è vertiginosamente in aumento in tutto il pianeta; appare quindi chiaro che stiamo affrontando una emergenza, e di conseguenza una sfida, di portata mondiale.
Nel 2011, la rivista Lancet ha analizzato la distribuzione globale del BMI, riportando che la prevalenza dell’obesità si era diffusa a livello mondiale.7 Infatti, secondo questi dati, tra il 1980 e il 2008, il valore del BMI è aumentato ogni decennio di 0,4 negli uomini e 0,5 nelle donne e, sempre nel 2008, circa 1,46 miliardi di adulti in tutto il mondo aveva un BMI di 25 o maggiore.
Questi dati sono stati confermati anche dall’OMS, secondo cui il numero di persone con obesità nel mondo è raddoppiato in vent’anni, a partire dal 1980: nel 2014 oltre 1,9 miliardi di adulti erano in sovrappeso, tra cui oltre 600 milioni obesi e, ad oggi, si stima che oltre un terzo della popolazione sia in sovrappeso o con obesità.8
In Italia la percentuale di persone affette da obesità è aumentata dall’8,5% nel 2001 al 10,3% nel 2009, con un incremento della mortalità per questa patologia di circa 18 volte in 30 anni.9
Un aspetto da non sottovalutare è quello dei costi economici e sanitari: in alcuni Paesi del mondo raggiunge il 6-10% della spesa sanitaria diretta, come l’assistenza sanitaria personale, l’assistenza ospedaliera, i servizi medici e il costo dei farmaci. È stato calcolato che nei Paesi occidentali una persona con obesità costi al sistema sanitario circa il 25% in più di una persona normopeso.
I cosiddetti “costi indiretti” sono circa il doppio rispetto a quelli diretti: le morti premature, la ridotta produttività lavorativa, sia come giorni di lavoro persi che come inabilità a svolgere alcune specifiche mansioni, un incremento degli incidenti sul lavoro e del pensionamento anticipato.10
Infine, la gestione di un malattia così complessa comporta costi aggiuntivi rispetto a quelli che si avrebbero nella cura delle singole patologie presenti, con il rischio di possibili ritardi diagnostici e terapeutici, mancata coordinazione degli interventi, riammissioni improprie in ospedale, frammentazione della terapia e inadeguato utilizzo delle risorse.


meccanismi fisiopatologici e psicopatologici di “psicobesità”
La patogenesi dell’obesità è non solo, come già accennato, altamente complessa, ma ancora sostanzialmente irrisolta e i modelli fisiopatologici proposti sono diversi (figura 1).





Fino a qualche decennio fa, la causa dell’obesità era in modo semplicistico e schematico definita come lo squilibrio tra le entrate caloriche e il dispendio energetico. In accordo con questa teoria, gli individui affetti possono tenere sotto controllo con scelte comportamentali appropriate, configurando l’obesità come una condizione auto-imposta con una via di uscita semplice: “mangia meno, brucia di più”. Questo modello teorico ha causato sia un peggioramento dello stigma secondo cui il paziente con obesità che non perde peso sarebbe pigro, privo forza di volontà e, contemporaneamente, un’inerzia terapeutica da parte del medico che non propone nuovi trattamenti né potenzia quelli in corso perché ritiene che ci sia ben poco da fare.11
Il modello teorico biopsicosociale fa riferimento ad una componente esogena, rappresentata da un ambiente sempre più “obesogeno”, caratterizzato da un aumento della sedentarietà, dal consumo giornaliero di calorie con maggior contenuto di zuccheri, grassi aggiunti e carboidrati nelle diete e da una crescente e ubiquitaria disponibilità di cibo “povero” di energia, che si combina con la vulnerabilità genetica e personologica individuale.12
Secondo la “teoria omeostatica dell’obesità”, nella persona affetta da obesità si sviluppa il “circolo dell’insoddisfazione”, un circolo vizioso che si innesca da fattori emotivi e cognitivi disfunzionali, come l’insoddisfazione per l’immagine corporea, l’ansia e i sentimenti depressivi, facilitando il ricorso a comportamenti alimentari patologici che a loro volta causano malessere, sofferenza e obesità.13
Alcuni autori hanno concettualizzato due sistemi che regolano il cambiamento del peso e l’obesità negli adulti, definiti rispettivamente “omeostatico” ed “edonico”.14
Il sistema omeostatico agisce per riportare il peso al valore abituale, al “set-point” del peso; il sistema edonico è non-omeostatico e la sua azione causa l’allontanamento del peso dal set-point.
Mentre il meccanismo omeostatico integra i segnali interni e il dispendio energetico per regolare l’introito di cibo e il consumo energetico e mantenere il peso stabile, le forze non-omeostatiche dipendono da sistemi neuroendocrini che non seguono le regole del bilancio energetico. Uno dei principali meccanismi non-omeostatici è il sistema della ricompensa che segue le proprie regole del piacere e della gratificazione. Come risultato del consumo di cibo edonico, si possono immagazzinare calorie extra rispetto ai meccanismi omeostatici.


meccanismi omeostatici
Il peso corporeo è regolato da un meccanismo di tipo omeostatico, ovvero da un equilibrio dinamico, una tendenza al bilanciamento fra l’introito calorico e il dispendio energetico.
Dopo una rigida dieta con calo ponderale repentino, chi era in sovrappeso tende a tornare alla condizione precedente. La perdita di tessuto adiposo ottenuta dopo un intenso programma di allenamento agonistico è reversibile con l’interruzione dell’attività sportiva.15
Questo equilibrio omeostatico è regolato in modo sofisticato a livello neuroendocrino e attraverso il comportamento alimentare, nel breve e nel lungo termine.
Il sistema deve essere sufficientemente stabile e rispondere a qualsiasi fattore interno o ambientale capace di modificarne l’equilibrio.
Il comportamento alimentare è regolato da segnali interni enterocettivi, l’appetito; il desiderio e il piacere di assumere un particolare cibo indipendentemente dal bisogno energetico; la fame, che spinge la persona a nutrirsi e che può esprimersi con sensazione di sofferenza e malessere; la sazietà precoce che comincia alla fine del pasto e dipende dalla quantità ed al tipo di cibo consumato, e la sazietà tardiva, caratterizzata dall’assenza di fame, fino all’avvicinarsi del pasto successivo.
I segnali omeostatici che regolano nel breve termine l’equilibrio energetico includono diversi ormoni e nutrienti che inviano segnali alle strutture del sistema nervoso centrale, principalmente ipotalamo e mesencefalo. L’inizio e la fine del pasto sono regolati da segnali afferenti ed efferenti condotti da ormoni peptidici e neurotrasmettitori che rispondono alle esperienze sensoriali di fame e sazietà. I segnali omeostatici che regolano il bilancio energetico nel lungo termine sono trasmessi dagli ormoni che misurano l’adiposità. L’azione di questi ormoni avviene quando la massa grassa non è in equilibrio con il set-point del peso. Il modo in cui questi ormoni lavorano nel controllo dell’introito di cibo è un complicato processo di regolazione. Sebbene non siano i determinanti principali del comportamento alimentare collegato al singolo pasto, entrano in gioco quando c’è un bilancio energetico positivo o negativo, modulando la frequenza e l’abbondanza dei pasti nel lungo periodo, finché il set-point è ristabilito. Oltre a influenzare l’introito di cibo, regolano il dispendio energetico.16 Un prototipo di regolazione omeostatica del peso corporeo nel lungo termine è quello operato dalla leptina. La leptina è prodotta dagli adipociti e il suo livello è proporzionale alla massa grassa, che è il prodotto della grandezza e del numero degli adipociti. La leptina agisce come un misuratore fisiologico di adiposità, inviando un feedback al sistema nervoso centrale. Quando il tessuto adiposo cresce (aumento di peso), la leptina aumenta, attivando i neuroni anoressizzanti che rispondono alla leptina, come i neuroni POMC/CART (pro-opio melanocortina/ trascritti regolati da cocaina e amfetamine) del nucleo arcuato ipotalamico (ARC) e, contemporaneamente, inibendo i neuroni con effetto oressizzante che rispondono alla leptina, come i neuroni AGRP/NPY peptide correlato alla proteina Agouti/ neuropeptide Y) del ARC. Questo innesca un “segnale catabolico” attraverso una cascata di vie efferenti non del tutto chiarite che ridurrebbero l’introito di cibo e aumenterebbero il dispendio calorico con l’effetto di perdere peso.
Al contrario, quando il livello di leptina diminuisce (perdita di peso), un segnale anabolico si trasmette attraverso la cascata, causando l’aumento dell’introito di cibo e una riduzione della spesa energetica con l’obiettivo di stimolare l’aumento di peso.17
Potenzialmente, qualsiasi cambiamento strutturale o funzionale lungo questa cascata può alterare il set-point del peso.
Infatti, le mutazioni dei geni che codificano per i polipeptidi implicati nella trasmissione del segnale della leptina nell’ARC ipotalamico, causano obesità. Questi polipeptidi includono oltre alla leptina, il recettore della leptina, la POMC, il SH2B1 (un potenziatore del segnale leptinico), il MC4R (il recettore per alfa e beta MHS) e l’enzima che catalizza la POMC, il PCSK1. La perdita del funzionamento di questi peptidi causa obesità infantile probabilmente per un elevato set-point del peso, causato proprio dal deficit dei geni della regolazione omeostatica del peso.18
La principale regione cerebrale che regola l’omeostasi energetica è l’ipotalamo. Le vie chiave di questa regolazione sono il sistema della melanocortina, che consiste di due gruppi di neuroni con funzioni antagoniste: un gruppo esprime il neurone oressigeno AgRP (peptide collegato alla proteina Argouti) e il neuropeptide Y (NPY), l’altro esprime il peptide anoressigeno proopiomelanocortina POMC e i trascritti regolati da cocaina e amfetamina (CART). Fattori esterni attivano o inibiscono i diversi gruppi di neuroni ipotalamici, influenzando il comportamento alimentare e il dispendio di energia. Ad esempio, anche i livelli di insulina sono proporzionali con lo stato nutrizionale e il tessuto adiposo, inibiscono i neuroni AgRP e attivano i neuroni POMC con riduzione dell’introito e aumento del consumo calorico. Altri fattori periferici cruciali sono la grelina, il glucagon-like peptide-1 (GLP-1), l’adiponectina, l’irisina e i fattori dell’infiammazione.
Il set-point ipotalamico comunica anche con altre aree cerebrali: il sistema della ricompensa, il sistema delle emozioni, la memoria, l’attenzione, le aree cognitive e altre regioni corticali.19


meccanismi non-omeostatici, edonici
Il sistema del piacere e della ricompensa/gratificazione è codificato nel sistema cortico-limbico. Il sistema della gratificazione è formato da neuroni dopaminergici che originano dall’area del tegmento ventrale (VTA) e dalla sostanza nigra (SN) del mesencefalo e proiettano a diverse aree, principalmente al nucleo accumbens, allo striato (specie il caudato), alla corteccia orbitofrontale (OFC), e all’insula. Nelle persone con obesità, queste aree sono più sensibili agli stimoli alimentari. È stato ipotizzato che l’esposizione a cibi “gratificanti”, con carboidrati raffinati, alto contenuto di grassi come nei prodotti industrializzati, causi un’iper-responsività del sistema dopaminergico al cibo, che spinge l’individuo ad un aumentarne il consumo.20
Negli studi di fMRI è stato dimostrato un’iperattivazione a livello dell’OFC, del nucleo accumbens, e in altre aree del mesencefalo in risposta agli stimoli alimentari con cibi raffinati.21
Altri studi effettuati con la PET hanno ipotizzato un’iporesponsività dei recettori D2 per la dopamina nei sistemi della ricompensa (parte del nucleo striato), determinata dalla prolungata esposizione a cibi ipercalorici. La riduzione dei recettori D2 spingerebbe gli individui a cercare e a consumare di più i cibi ipercalorici, con aumento dell’obesità.22
Queste due teorie, apparentemente contrastanti, possono spiegare rispettivamente l’insorgenza e lo sviluppo dell’obesità.
Inoltre, i meccanismi edonici utilizzano i recettori m-oppiodi e i recettori CB1 cannabinoidi per tradurre il liking “implicito”, in altre parole la reazione “automatica” al cibo che avviene senza la riflessione consapevole del liking “esplicito”, che include invece le attitudini verso il cibo, la percezione del rischio, l’auto-efficacia e l’intenzionalità. Questo sistema di valutazione della ricompensa lavora per andare incontro al bisogno di piacere.23
Nello stato fisiologico, quando si ha fame, i segnali metabolici e il piacere di mangiare sono coordinati per orchestrare l’assunzione di cibo. Mangiare è piacevole ma i due sistemi possono anche non essere in sintonia in alcune circostanze, come il mangiare anche quando si è sazi. I due sistemi collidono più facilmente nell’era dell’abbondanza di cibo.
Il sistema della ricompensa è a sua volta in connessione con l’amigdala, l’ippocampo, la corteccia gustativa e la OFC. Questo articolato sistema può spiegare il perché alcuni individui siano spinti a mangiare in modo diverso sotto stress, in risposta all’ansia o come strategia di “conforto”. Inoltre, i sistemi psichici coinvolti operano in modo indipendente dallo stato energetico, in modo non omeostatico, portando il peso corporeo al di sopra del set-point.
Infine, il desiderio di mangiare può oltrepassare i segnali metabolici di fame e sazietà e alterare il bilancio energetico nel breve termine; tutti possono mangiare di più anche quando sono sazi o resistere se sono affamati.24


sistema cognitivo
Il sistema cognitivo regola funzioni sofisticate come l’inibizione della risposta motoria, la motivazione verso il cibo, la consapevolezza enterocettiva, i processi emotivi e l’impulsività in modo complesso. La corteccia prefrontale svolge gran parte del lavoro, soprattutto nel giro del cingolo, la corteccia frontale inferiore, l’area pre-motoria supplementare (pre-SMA), e la corteccia prefrontale (DLPFC). Diversi studi hanno dimostrato una riduzione del controllo inibitorio nei pazienti con obesità e un collegamento tra deficit del controllo inibitorio e sviluppo futuro di obesità in soggetti normopeso. Inoltre, l’aumento dell’impulsività è collegato al sovrappeso e al fallimento dei tentativi dietetici.25


sistema dell’attenzione
Il sistema dell’attenzione regolato dalla corteccia parietale, visiva e da aree della corteccia frontale (cingolo anteriore) è implicato nella patogenesi dell’obesità. Le persone affette sono più attente agli stimoli alimentari durante la fase di sazietà mentre gli individui normopeso che prestano più attenzione agli stimoli alimentari presentano più spesso pattern di iperalimentazione.26


sistema delle emozioni
Il sistema delle emozioni, localizzato principalmente nell’amigdala, è un potente modulatore dell’appetito. La gioia, la rabbia e la depressione aumentano l’appetito e spingono a scelte alimentari non salutari rispetto alla paura e alla tristezza, soprattutto nelle donne. Inoltre, l’attivazione dell’amigdala stimola il consumo di cibi ipercalorici.27


memoria
La memoria è regolata dall’ippocampo e dal giro paraippocampale che ricevono input dall’insula, dalla corteccia orbitofrontale e dall’ipotalamo. È stata ipotizzata una disfunzione ippocampale nell’obesità.28


infiammazione
L’obesità è spesso concomitante con lo stato infiammatorio cronico. L’infiammazione del sistema nervoso centrale compare prima di quella del tessuto periferico e soprattutto a livello ipotalamico che non è interamente protetto dalla barriera ematoencefalica. Questo può indurre obesità in due fasi. Durante la fase infiammatoria precoce, dopo una esposizione breve a una dieta ricca ipercalorica, l’eccessivo assorbimento intestinale di grassi causa l’attivazione delle citochine con infiammazione ipotalamica. Nella prima fase di questa dieta, i marker di infiammazione ipotalamica aumentano in modo cospicuo e si accompagnano a gliosi reattiva, danno neuronale già dalla prima settimana, in anticipo rispetto all’aumento di peso.
Parallelamente all’insorgenza precoce di infiammazione, tre giorni di dieta ad alto contenuto di grassi sono sufficienti a ridurre in modo significativo la sensibilità all’insulina.
Questi processi precedono gli eventi infiammatori negli organi periferici, come il fegato. Durante la seconda fase infiammatoria, la cascata infiammatoria prolungata attiva il meccanismo cellulare dello stress e il rilascio dei mediatori infiammatori dalle cellule non neuronali, instaurando il lento deficit del controllo metabolico dell’ipotalamo. Le citochine pro-infiammatorie come il TNF-a, promuovono lo sviluppo di insulino e leptino resistenza cerebrale che compromette la funzione del sistema ipotalamico e media la neurodegeberazione. Inoltre, l’alimentazione prolungata con cibi ipercalorici altera la plasticità sinaptica. Oltre all’ipotalamo, anche l’ippocampo è vulnerabile all’infiammazione nonostante la protezione della barriera emato-encefalica. Nell’obesità, sono state osservate reazioni gliotiche ippocampali che ne alterano la funzionalità e che sono immuno-mediate.29


regolazione tra il sistema omeostatico e non omestatico
nello stato fisiologico
L’alimentazione edonica e l’attività fisica e mentale, quando agiscono come forze non-omeostatiche, causano un’alterazione dello stato di bilancio energetico. Le forze omeostatiche lavorano sempre per portare il bilancio energetico tra consumo e introito al livello di equilibrio, zero. Quando i segnali omeostatici tramite fame e sazietà falliscono e il peso varia, intervengono altri circuiti per ristabilire l’equilibrio con risposte compensatorie. Infatti, per quanto il sistema omeostatico funzioni e i livelli di grelina e leptina siano appropriati, questo può non essere sufficiente nel singolo pasto; una persona sazia può ugualmente desiderare un drink o un dessert, esperienze comuni che non depongono per un disturbo alimentare. Quindi, nel lungo termine il peso corporeo non è stabile o devia in una certa direzione, piuttosto oscilla intorno al set-point.


regolazione tra il sistema omeostatico e non omestatico
nello stato di malattia
Quando il peso non è auto-regolato e si raggiunge l’obesità, parliamo di malattia. Questo accade in due situazioni: quando il set-point originale non è difeso dal sistema omeostatico ma aumenta a un livello più alto di obesità, definita metabolica; oppure, se il sistema omeostatico non contrasta quello edonico che spinge a iperalimentarsi. Questa forma di iperalimentazione è presente in disturbi come il disturbo da alimentazione incontrollata, la food addiction (FA), e il mangiare compulsivamente.


food addiction
Nel caso dell’obesità di tipo edonico la problematica risiederebbe in una disregolazione del centro della ricompensa, in grado di condurre a pattern sovrapponibili a quelli delle dipendenze.
È da questo filone di studio che si è sviluppato negli ultimi anni il costrutto di “dipendenza da cibo” o FA, che si verificherebbe in soggetti con difficoltà nella regolazione emotiva e alti livelli di impulsività, causando un profilo di alimentazione con caratteristiche paragonabili a quanto avviene nei disturbi da uso di sostanze.
Sebbene non si possa ancora oggi parlare con certezza dell’esistenza di una vera e propria “dipendenza da cibo”, ci sono molte evidenze circa la sovrapponibilità degli effetti a livello cerebrale di alcuni tipi di cibo (“altamente palatabili”) rispetto alle sostanze d’abuso: in entrambi i comportamenti sono infatti attivati gli stessi circuiti neuronali, dopaminergici e degli oppioidi endogeni, coinvolti nei sistemi motivazione-ricompensa e gratificazione, causando un aumento del desiderio di assunzione, associato spesso ad una perdita di controllo, con l’iperconsumo della sostanza-cibo in questione. Sebbene i maggiori indiziati nello sviluppo di dipendenze da cibo siano gli acidi grassi e lo zucchero, l’assenza di una corrispondenza certa con una sostanza specifica rende ancora controverso il parlare di una vera e propria FA. I fenomeni associati all’iperconsumo sono simili a quelli caratteristici delle dipendenze: tolleranza, astinenza, disagio derivato dalla non assunzione, ma si manifestano in modo più sfumato e meno costante. Livelli più gravi di FA, misurati con la Yale Food Addiction Scale (YFAS-2), si accompagnano a compromissione della qualità di vita, una maggiore prevalenza di sintomi depressivi e d’ansia e co-occorrenza di dipendenze e disturbi alimentari.
Uno studio interessante15 ha analizzato le credenze circa il concetto di “dipendenza da cibo”, dimostrando che si tratta di un concetto ormai diffuso e spesso mal interpretato, con un crescente numero di persone in grado di affermare che la FA sia l’unica causa dell’obesità. Le conseguenze di questo fenomeno si traducono in una tendenza alla riduzione del senso di auto-responsabilità percepito, e possono contribuire all’atteggiamento di “delega” della cura o rinuncia alla cura che spesso si osserva in molte patologie in cui il contributo attivo del paziente è assolutamente cruciale. Alcuni studi hanno invece confermato il contrario, ovvero che la credenza di essere affetti da una “dipendenza da cibo” determinerebbe una maggiore aderenza alle cure.


comportamenti alimentari disfunzionali nell’obesità
Esiste una stretta connessione tra l’obesità, i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione come il Binge eating disorder (BED) e alcuni comportamenti alimentari disfunzionali, che non rappresentano disturbi veri e propri ma si associano all’eccesso di peso.
Il Disturbo da alimentazione incontrollata (o BED) è riconosciuto nel DSM-5 come una condizione caratterizzata da episodi di abbuffate, assunzione di una eccessiva quantità di cibo in un arco di tempo relativamente breve, o quando non affamati o se da soli, associati alla sensazione di perdita di controllo e sentimenti di colpa, disgusto, demoralizzazione. Il BED rappresenta il più comune tra i disturbi della nutrizione e alimentazione (o DNA, nuova definizione dei vecchi disturbi del comportamento alimentare), e colpisce fino al 3% della popolazione. La presenza di questo disturbo è associata ad una possibilità di 3-6 volte maggiore di sviluppare obesità e sindrome metabolica.
Nella Sindrome da alimentazione notturna (o Night eating syndrome, NES) la persona consuma una grossa porzione (fino a >25%) delle calorie totali giornaliere dopo cena o di notte. A questo comportamento si devono associare anoressia mattutina, deflessione timica soprattutto serale, insonnia iniziale o centrale, bisogno impellente di introdurre cibo tra la cena e l’addormentamento e un vissuto caratterizzato dalla sensazione di una vera e propria impossibilità a riaddormentarsi senza prima introdurre del cibo. Questo disturbo, così come il BED, è altresì altamente associato allo sviluppo di sovrappeso e obesità. La NES è stata descritta per la prima volta da Stunkard nel 1955 in pazienti con obesità e iperfagia notturna, insonnia e anoressia mattutina. Ad oggi tale sindrome è entrata a far parte del DSM-5, nella categoria dei disturbi della nutrizione con altra specificazione. La diagnosi è essenzialmente clinica. Per lo screening e la stima della risposta al trattamento sono stati sviluppati alcuni strumenti di valutazione, tra cui il Night Eating Questionnaire e il Night Eating Diagnostic Questionnaire (NEDQ), più recente e aggiornato agli ultimi criteri approvati. La prevalenza nella popolazione generale è approssimativamente intorno all’1,5%, ma raggiunge picchi del 40% tra i pazienti candidati alla chirurgia bariatrica. Alla base vi è la desincronizzazione dei ritmi circadiani di sonno e alimentazione. Nei pazienti con NES è stata rilevata una riduzione dei livelli di leptina e grelina durante la notte, oltre a ridotte concentrazioni di melatonina, che potrebbero contrinuire alla disregolazione dei ritmi biologici.
I comportamenti alimentari disfunzionali dell’obesità sono: il piluccamento/grazing, l’alimentazione emotiva/emotional eating, l’iperfagia prandiale/gorging, le bramosie selettive (come quella per dolci/sweet eating, o quella per carboidrati), i pasti frequenti/snacking.
Il grazing consiste nell’assunzione ripetitiva e non pianificata di piccole quantità di cibo, lontano dai pasti principali e dagli spuntini, e senza relazione con gli stimoli di fame o sazietà. I dati circa la prevalenza sono attualmente disponibili solo per la popolazione con obesità, in cui è stimato intorno al 30%. Sono contraddittori i dati sulla presenza della perdita di controllo, e molti autori distinguono due sottotipi di grazing: quello con LOC (loss of control), e dunque definito compulsivo, e quello non compulsivo, senza perdita di controllo. Solo il grazing con LOC risulterebbe associato ad un aumento del BMI, ad una predisposizione a sviluppare disturbi del comportamento alimentare, a maggiori livelli di stress, a una riduzione della qualità della vita e alla riduzione dell’efficacia dei trattamenti per la perdita di peso.
Per emotional eating si intende la tendenza ad alimentarsi in risposta a emozioni negative, come ansia, irritabilità, tristezza, noia. È una condizione più frequente nelle donne ed è associata al consumo di cibi ad alto contenuto calorico e di grassi, in grado dunque di causare aumento di peso, sebbene si verifichi anche in persone normopeso e sottopeso. L’aumento dell’introito calorico in risposta a emozioni negative sarebbe da considerare come un meccanismo di coping che provoca un sollievo temporaneo dai sentimenti spiacevoli e potrebbe configurarsi come mediatore nel rapporto tra depressione e aumento di peso, osservato tipicamente in alcune forme di depressione con sintomi atipici, come l’iperfagia. L’emotional eating è stato identificato come fattore di rischio per le abbuffate ed è stato associato a bassi livelli di autostima e sentimenti di inadeguatezza, soprattutto nelle donne.
Lo sweet eating consiste nella tendenza a consumare cibi o bevande prevalentemente dolci o zuccherine per un consumo giornaliero di almeno 300 kcal/die con una frequenza di almeno due volte a settimana.
In sintesi, è ormai cruciale fare una distinzione tra pazienti affetti da obesità con e senza disturbi del comportamento alimentare (o DNA, secondo il DSM-5) più o meno conclamati.
I principali motivi sono due: il primo è dovuto alla maggiore gravità della condizione di “obesità con DNA” rispetto a quella “obesità senza DNA”; il secondo motivo è dovuto al valore predittivo negativo della presenza di una psicopatologia alimentare sul risultato dei diversi interventi terapeutici.


immagine corporea nell’obesità
Un altro importante fattore da tenere in considerazione nell’approcciarsi a questa patologia è il costrutto dell’immagine corporea, spesso fortemente compromesso nei pazienti con obesità, in particolare in chi presenta anche comportamenti alimentari disfunzionali.
Il costrutto di immagine corporea è stato definito come: “l’immagine e l’apparenza del corpo umano che ci formiamo nella mente, e cioè il modo in cui il nostro corpo ci appare” (Paul Schilder, 1935).
“L’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alle singole parti del nostro corpo” (Peter Slade, 1988).
L’immagine corporea è un costrutto psicologico complesso, composto da almeno quattro componenti: percettiva, emotiva, cognitiva, comportamentale, verso cui l’individuo mette in atto due tipologie di comportamenti innati, la valutazione e l’investimento.
La valutazione, che consiste nel confrontare la propria immagine corporea con un ideale interiorizzato, ovvero di un’idea interna di quale sarebbe la propria immagine corporea ideale (body image evaluation).
L’investimento, che consiste invece nell’assegnare, più o meno consapevolmente, un livello di importanza variabile alla propria immagine corporea (body image investment).
Ognuna di queste componenti può essere funzionale o disfunzionale, contribuendo a creare un’immagine corporea interna sana o distorta.
Così come per tante caratteristiche di ogni individuo, esiste una grande individualità anche nel vissuto circa l’immagine corporea propria e degli altri, che deriva da caratteristiche personali, relazionali, ambientali, culturali e situazionali, e che fa sì che ognuno sperimenti nei confronti della propria immagine corporea dei sentimenti assolutamente unici.
Le personali valutazioni sul corpo, unite al giudizio esterno e al personale modo di interiorizzarlo, determinano livelli più o meno elevati di soddisfazione rispetto alla propria immagine corporea, passando dall’insoddisfazione per l’immagine corporea fino a quadri caratterizzati da una vera e propria distorsione dell’immagine corporea, che possono avere conseguenze negative sui livelli di ansia e autostima, sull’umore e sulla qualità di vita in generale.
Le recenti teorie circa l’insoddisfazione per l’immagine corporea nell’ambito dei disturbi alimentari e dell’obesità, la intendono come un costrutto psicologico complesso determinata da molteplici fattori: fattori interni: perfezionismo, intolleranza alle emozioni, bassa autostima, fattori ambientali: influenza dei familiari, dei pari e dei social media, fattori culturali: modelli estetici propri di ogni cultura.
Per quanto riguarda le influenze interpersonali, numerosi lavori hanno individuato il “teasing” relativo al corpo (letteralmente inteso come “l’essere presi in giro” a causa del proprio aspetto fisico) come una delle cause di insoddisfazione per l’immagine corporea. Alcuni studi hanno riportato correlazioni tra il “teasing” e lo sviluppo di comportamenti alimentari restrittivi e bulimici, bassi livelli di autostima, interiorizzazione dell’ideale di magrezza, depressione, ansia, aumentato consumo di alcol e tabacco.30 Il fenomeno del “teasing” è stato poi riconosciuto come facente parte di un paradigma più ampio, denominato “feedback correlato all’apparenza”, inteso come qualsiasi forma di interscambio verbale o non verbale che informi il destinatario sull’opinione del mittente riguardo l’aspetto fisico, e f in grado di influenzare i pensieri e le emozioni circa la propria immagine corporea.31
Un ulteriore contributo per lo sviluppo di alterazioni dell’immagine corporea e comportamenti alimentari disfunzionali che favoriscono l’obesità è fornito dai social media. Secondo la Teoria del Modello Tripartito di Influenza di Thompson (1999), l’impatto dei social rappresenta uno dei componenti “esterni” che influenzano l’immagine corporea, insieme al giudizio dei familiari e dei pari, alimentando il circolo vizioso psicopatologico che porta all’obesità.
I disturbi dell’immagine corporea sono di cruciale importanza nella cura di malattie come l’obesità; gli studi confermano che il miglioramento dell’immagine corporea si associa a risultati terapeutici più favorevoli in termini di perdita di peso e miglioramento della qualità della vita.32
Un ultimo aspetto determinante nell’ambito dei disturbi dell’immagina corporea nell’obesità, è il weight bias, che rappresenta l’idea che le persone hanno dell’obesità. Nel weight bias si verificano tre fenomeni: non considerare l’obesità come una patologia ma come una condizione caratterizzata solo da un aumento eccessivo del peso e in nessun modo collegata alle complicanze mediche che invece provoca; considerare l’obesità come una conseguenza di fattori esclusivamente esterni al soggetto (sociali, economici, culturali) e considerare l’obesità come una condizione di esclusiva responsabilità del soggetto, visto come “poco determinato”, “pigro” e spesso ridicolizzato e discriminato.33
Ma quali sono le conseguenze di questi atteggiamenti? Da una parte, uno scarso insight di malattia da parte dei pazienti e spesso anche dei loro familiari, con la conseguenza di una minore partecipazione alla cura e risultati terapeutici deludenti; dall’altra lo sviluppo di una vera e propria stigmatizzazione del paziente affetto da obesità da parte della popolazione sana, da parte dei clinici e da parte degli stessi pazienti (self-stigma). Gli studi più recenti hanno descritto nei pazienti due diverse componenti dell’autostigmatizzazione: la “self-devaluation”, con cui i pazienti interiorizzano lo stigma esterno sperimentando profondi vissuti di colpa, frustrazione e demoralizzazione, e la “fear of enacted stigma”, ovvero la paura di stigmatizzazioni.34
stratificazione dei pazienti e trattamento
L’obesità non può essere curata in modo efficace se il disturbo che è alla base non viene trattato. L’obesità è una malattia eterogenea, pertanto non esiste un modello di terapia valido per tutti i casi, “one-size-fits-all”. Gli ostacoli maggiori alla perdita di peso e al mantenimento nel lungo termine sono causati dalla mancanza di terapie personalizzate basate su diagnosi “di precisione”. Una migliore comprensione della patofisiologia dell’obesità dipende dalla definizione dei sottotipi, dallo sviluppo di biomarker e di opzioni terapeutiche diverse e adeguate alle categorie di pazienti. La classificazione schematica dell’obesità metabolica ed edonica può essere utile (tabella I).



A livello clinico, i pazienti con obesità edonica si differenziano dai metabolici per la presenza di alterazioni del comportamento alimentare significative. Segni e sintomi di un disturbo del comportamento alimentare o aspetti di FA possono indirizzare la diagnosi. Ciò nonostante le alterazioni del comportamento alimentare non sono un prerequisito fondamentale per l’obesità edonica. I marker biologici sono la nausea, e l’aumentata risposta del cortisolo salivare al naltrexone (bloccante del sistema oppioide). Nell’obesità edonica esiste un deficit del sistema della ricompensa ed è quindi possibile rilevare la presenza di comorbilità psichiatriche come depressione, ansia, stress cronico, insonnia. Lo studio del dispendio energetico totale e a riposo è un parametro utile; nella forma edonica il rapporto tra dispendio energetico e BMI è aumentato. In questa forma gli interventi più appropriati sono specifici per il sistema della ricompensa, con farmaci come il naltrexone/bupropione, la psicoeducazione per il cambiamento degli stili di vita, la mindful eating e l’aderenza alla dieto-terapia. Ulteriori stratificazioni si possono fare per quei pazienti che mostrano deficit di sazietà, prescrivendo farmaci come la fentermina/topiramato. Inoltre, una strategia dietoterapica è di separare la componente di gratificazione da quella calorica, prescrivendo cibi “palatabili” appetitosi, poco calorici.35
Nell’obesità metabolica gli interventi per ridurre il set-point del peso dovrebbero avere l’obiettivo finale della perdita e del mantenimento del peso. Esistono evidenze scarse su questo tipo di trattamento, ad esempio per la leptina. La domanda è se una volta aumentato. il set-point può tornare alla normalità. Studi su modelli animali hanno mostrato un ripristino della plasticità sinaptica e un effetto neurotrofico nei neuroni del nucleo arcuato in topi trattati con leptina.36 Più recentemente l’inibizione dell’espressione della proteina RAP1 ipotalamica, risulta in una perdita di peso nei topi con obesità indotta dalla dieta attraverso la risoluzione dello stress del reticolo endoplasmatico ipotalamico, dell’infiammazione e della resistenza all’insulina.37

I farmaci approvati dalla FDA per il trattamento dell’obesità non agiscono selettivamente su un tipo di obesità, metabolica o edonica e i molti casi di non-responders suggeriscono ulteriori aspetti di complessità eziopatologica.
La liraglutide è un agonista del recettore del GLP-1. Il GLP-1 agisce sul sistema mesolimbico della ricompensa e regola a livello ipotalamico l’alimentazione, attraversa la barriera emato-encefalica e stimola i neuroni anoressigeni (POMC). I trial con liraglutide hanno mostrato una riduzione del peso del 4,7-6,1% dopo 56 settimane di follow-up. Gli effetti collaterali più comuni sono la nausea.
Il naltrexone-bupropione è stato approvato dalla FDA nel 2014, stimola la dopamina e i neuroni POMC e blocca il feedback inibitorio dei recettori m sui neuroni POMC che risulta in un calo dell’appetito e aumento del dispendio energetico. I trial con naltrexone-bupropione riportano una perdita di peso del 5,0-9,3% in 28-56 settimane di osservazione.
Gli studi di fMRI hanno evidenziato l’attenuazione della risposta ipotalamica al cibo, il miglioramento del sistema ippocampale della memoria, l’attivazione delle aree dell’attenzione, della ricompensa e della consapevolezza enterocettiva.
La lorcaserina è un inibitore dell’agonista del recettore 5-HT 2C, approvata nel 2012. Gli effetti sono diversi: aumento della sazietà, riduzione del craving e dell’impulsività. I trial clinic riportano una perdita di peso di 4,5-7,0%. Sembra che la lorcaserina agisca anche attraverso l’attività sui sistemi cerebrali dell’attenzione, delle emozioni e della ricompensa.
Attualmente altri farmaci, come la fentermina/topiramato, non sono stati approvati in Europa. Questo farmaco, usato negli USA, modula il rilascio di norepinefrina, l’attività GABAergica, inibisce i recettori glutammatergici eccitatori. La sicurezza soprattutto a livello cardiovascolare ne ha bloccato la commercializzazione da parte dell’EMA.38
La chirurgia bariatrica è la terapia più efficace e duratura per la perdita di peso. Le evidenze più robuste sono a favore del Roux-en-Y by-pass gastrico (RYGB) e della Sleeve Gastrectomy che inducono un cambiamento dei segnali omeostatici, come il glucagon-like peptide-1 (GLP-1), il peptide YY (PPY) e altri ormoni intestinali e allo stesso tempo il cambiamento della risposta edonica al cibo. Anche nel caso della chirurgia, è fondamentale l’inquadramento diagnostico del paziente per scegliere l’intervento più appropriato.39


conclusioni
L’obesità è in aumento in modo pandemico e per questo sono state studiate e utilizzate diverse tipologie di trattamento: comportamentali, come la dieta e l’attività fisica, psicoterapeutiche, farmacologiche, chirurgiche, di modulazione del microbiota intestinale e protocolli di stimolazione transcranica a corrente continua (tDCS). Pur rimanendo validi, tutti questi approcci mostrano livelli di efficacia diversa tra gli individui e risultati contrastanti nel lungo termine. I pazienti affetti da obesità soffrono di alterazioni funzionali cerebrali dei meccanismi di ricompensa, attenzione, memoria, regolazione omeostatica dle peso corporeo, funzioni cognitive che suggeriscono che il trattamento dell’obesità non possa essere “brainless” ma deve obbligatoriamente includere negli obiettivi terapeutici queste alterazioni. Inoltre, il corretto inquadramento diagnostico e la caratterizzazione dei possibili disturbi della nutrizione e dell’alimentazione e degli eventuali pattern alimentari disfunzionali specifici dell’obesità sono il presupposto fondamentale non solo per la diagnosi di precisione ma soprattutto per l’efficacia delle terapie utilizzate.


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