Note di psicopatologia al tempo del COVID-19

filippo maria ferro

Già Professore ordinario di Psichiatria presso l’Università «G. d’Annunzio» di Chieti




“Le foglie cadono da lontano, quasi/giardini remoti sfiorissero nei cieli;/con un gesto che nega cadono le foglie. /Ed ogni notte pesante la terra/cade dagli astri nella solitudine. / Tutti cadiamo. Cade questa mano, /e così ogni altra mano che tu vedi. /Ma tutte queste cose che cadono. Qualcuno/con dolcezza infinita le tiene nella mano” (Rainer Maria Rilke, Herbst, in Das Buch der Bilder, 1902).


RIASSUNTO

Numerose sono le osservazioni riguardo ai quadri neurologici e psichiatrici collegati all’attuale pandemia da coronavirus 2019 (COVID-19). Una sintetica rassegna della letteratura permette di rilevare gli aspetti psicopatologici che più occorrono e di iniziare a delineare la sintomatologia dei quadri da un punto di vista fenomenologico e dinamico. Il nucleo specifico è rappresentato dalla “COVID Psychosis” e dal problema della sua complessità patogenetica. La comprensione di quanto si registra in clinica va tuttavia incastonata nella situazione socio-antropologica e culturale che questo trauma collettivo ha determinato e determina.

Parole chiave: coronavirus, psicopatologia, “COVID psychosis”, storia della psichiatria.



SUMMARY

Notes on psychopathology at the time of COVID-19

There are numerous observations regarding the neurological and psychiatric pictures linked to the current coronavirus pandemic 2019 (COVID-19). A brief review of the literature allows to detect the psychopathological aspects that are most needed and to begin to outline the symptoms of the pictures from a phenomenological and dynamic point of view. The specific core is represented by COVID Psychosis and the problem of its pathogenetic complexity. However, the understanding of what is recorded in the clinic must be embedded in the socio-anthropological and cultural situation that this collective trauma has determined and determines.

Key words: coronavirus, psychopathology, COVID psychosis, history of psychiatry.



Negli ultimi giorni di febbraio a Roma, al XXIII Congresso della SOPSI, si discuteva di formazione, evidenze, traslazione: argomenti che quasi prefiguravano gli strumenti per quanto sarebbe stato presto necessario affrontare. Le immagini dalla città di Wuhan, cronaca di un morbo e annuncio remoto di una catastrofe. La coppia cinese ricoverata al Forlanini. Un pericolo nitido certo, ma che sembrava in una dimensione altra. Sgomento e malessere, ma di quelli che nella quotidianità siamo abituati ad archiviare con amara indifferenza. Eppure era un presagio, come quello descritto in apertura del romanzo di Camus: “La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo”.1 Poi le immagini delle zone rosse di Codogno e di Lodi, e in pochi giorni la certezza che qualcosa di terribile, e tanto più terribile in quanto invisibile, ci minacciava e sospendeva il nostro tempo, le nostre relazioni. Il male si estendeva, ancora leggiamo Camus: “La somma era paurosa. In pochi giorni appena, i casi mortali si moltiplicarono, e fu palese a quelli che si preoccupavano dello strano morbo che si trattava di una vera epidemia”.

Un turbamento scavato nell’esistenza. Dice Heidegger: “Il minaccioso non si avvicina, esso ci è già, è così vicino che ci opprime e ci mozza il fiato, ma non è in nessun luogo. Esso è ovunque”.2 In quelle ore vuote quando il tempo aveva perso il suo ritmo, e si dilatava ed era troppo, ma poi, a ben vedere, risultava contratto. La letteratura avvertiva del resto che non era la prima volta, che le pandemie, come i momenti di catastrofe, punteggiano il testo della storia, ne costituiscono le pause, i punti a capo.3 I teatri del dolore di tempi trascorsi,4 immagini tragiche dipinte e scolpite, erano evocati e sovraimpressi dalle foto impietose delle corsie, dei reparti di rianimazione. I decreti del lockdown si sono susseguiti, e si susseguono, come le grida dei governatori spagnoli evocate dal Manzoni. Nulla di nuovo, eppure si apriva una svolta epocale, in cui non immaginavamo neppure di poter restare coinvolti e attanagliati. Mesi di attesa e di pensieri. Una mole di studi, di ricerche, di case report, il white noise quotidiano dei DG Alerts. E ora ci troviamo ancora a riflettere, nel fuoco delle controversie, proprio quando il morbo riprende a divampare (anche questo è un monito che sta scritto nella storia). Perché quanto abbiamo attraversato e ancora stiamo vivendo, ridisegna le nostre vite, i nostri corpi, le nostre relazioni, le nostre coordinate culturali.



il corpo insidiato 

La notizia del male si insinua in modo subdolo nel corpo, ne invade le funzioni vitali, mozza in particolare il respiro, l’atto con cui veniamo al mondo e che ora, per i malati di COVID, ne segna il commiato. Un affanno che abbiano imparato dai resoconti clinici, dalle confidenze di chi l’ha provato, dalle paure che ci hanno sfiorato e ancora ci sfiorano. Così molte volte ci siamo trovati in questi giorni ad ascoltare il corpo, ad esplorarne i ritmi, a coglierne sensazioni di malessere come incubi. Ci sorprendiamo a saggiare olfatto e gusto. Anche questa è una narrazione che si ripete, dalle osservazioni del protofisico Ludovico Settala nei giorni della peste manzoniana5 alle cartelle della “influenza spagnola”, a quanto il COVID-19 Daily dashboard della John Hopkins University ogni giorno rivela. Sensazioni impalpabili, una “metamorfosi” che infiltra sottilmente i vissuti, un “sogno agitato” che si cala nel corpo e lo trasforma come nell’incipit di Kafka: “Gregor Samsa, destandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato nel suo letto in un enorme insetto immondo”.6

La noxa è ovunque, si dilata nell’attesa come i fantasmi dei Tartari invasori evocati da Dino Buzzati,7 e nella non visibilità, in questa sospensione, dilaga come un incubo ad occhi aperti, reso vivo e attivato ogni giorno dalle notizie che ci assediano, e dalle previsioni di esperti che non riescono a tranquillizzare più dell’oracolo di Delfi.



caducità e ‘disagio’ 

Il contagio che avvampa, la presenza della morte, inducono anzitutto a riflettere sulla caducità delle cose. Freud, presago della guerra imminente, passeggia, nell’agosto del 1913, a San Martino di Castrozza nelle Dolomiti, con Lou Andreas Salomè e Rainer Maria Rilke, e discute con il poeta, di fronte a una contrada estiva in piena fioritura, del senso di caducità:8 un dialogo che Marie Bonaparte ha colto in tutta la profondità.9 Sono considerazioni che si precisano, due anni dopo, in margine allo scoppio del conflitto, e la chiusa riesce emblematica: “se vuoi sopportare la vita, impara ad accettare la morte”.10 L’osservazione viene ripresa da Freud quando formula la concezione dell’istinto di morte e contempla l’immanenza della coppia pulsioni di vita/pulsioni di morte,11 e forse lo fa registrando il lutto per la figlia maggiore Sophie vittima dell’influenza spagnola. La guerra, l’epidemia fanno affiorare il malessere (Unbehagen) nei confronti della Kultur e tale situazione emotiva ambigua per l’uomo moderno è poi svolta nel famoso saggio sul disagio,12 e sarà anche alla base delle meditazioni di Heidegger sulla ‘tecnica’.13

Come viviamo ora tutto questo? E come lo vivono i nostri pazienti? L’esperienza di questi mesi si è sviluppata, per molti di noi, in prevalenza nel silenzio degli studi, ed è fatta di volti allo schermo, di voci al telefono.14 Ma vi sono sguardi che sono penetrati dentro ai pronto soccorso, alle corsie e hanno colto emozioni vibranti in tutta la loro fisicità. Medici e infermieri hanno visto lo smarrimento dietro la barriera dei caschi per l’ossigeno, come raccontano testimonianze raccolte via Facebook.15 Sono storie che affiorano da un magma, dove le stesse notazioni psicopatologiche sono allontanate dall’urgenza in uno spazio non esplorabile, spazio dove anche la morte viene incontrata in una crudele distanza.16 E ne derivano reazioni serie che possono giungere a pregiudicare la forza di nervi saldi, a produrre dei cedimenti già ben visibili nella seconda ondata e che indicano l’opportunità di interventi di sostegno e prevenzione.17-19



i pazienti: appunti per una psicopatologia al tempo del covid 

I pazienti sono, nelle relazioni che riusciamo ad avere o a mantenere, il nostro specchio. Le angosce che ci insidiano si intrecciano ed entrano in risonanza con le loro, la temperatura emotiva modifica e declina la fenomenologia dei sintomi. Alle impressioni iniziali sulla vulnerabilità di “affective temperament” e “attachment style”20 hanno fatto presto seguito riscontri puntuali durante le degenze.21 E, quando si è potuto gettare uno sguardo complessivo lungo lo svolgersi dell’epidemia,22 si è convenuto che i precedenti psichiatrici favorivano non solo la comparsa e la modalità di turbe specifiche,23 ma accentuavano la stessa morbilità e letalità.24 Molti riscontri al riguardo risultano per certi versi prevedibili e vengono a conferma di notazioni fatte egualmente in tempi di crisi e di emergenza. Da un lato se le angosce irrompono e destrutturano la presenza, dall’altro è pur innegabile che certi vissuti alterati si smorzano e confondono nel rumore di fondo di emozioni collettive condivise. Dobbiamo inoltre distinguere tra quanto la pandemia ci presenta come quadri emergenti e inediti e quanto invece appare semplicemente modificato in casi noti e già in cura.

“COVID-19 Psychosis”, come per tutte le forme infettive acute, del morbo COVID è stata illustrata anzitutto la fenomenologia confusiva. È avvenuto così anche per l’influenza spagnola nel secolo passato, una pandemia di cui alcuni di noi hanno potuto vedere gli esiti nei malati di Parkinson post-encefalitici. In quell’occasione, le autorevoli descrizioni di Karl Menninger, nel 191925 e ancora nel 1928,26 si sono mosse in modo ambivalente, oscillando tra la concezione psico-organica di Karl Boenhoffer espressa nel 191027 e il quadro “schizofrenia” delineato da Eugen Bleuler nel 1911.28 Le figure della malattia mentale e quella dell’infezione sono allora venute a sovrapporsi, e lo mostrano con chiarezza il disegno, poi tradotto in incisione, di Alfred Kubin che raffigura il “delirio” (Der Wahnsinn), 1904, e ancora il dipinto in cui Edward Munch si ritrae ammalato di febbre spagnola, 1919 (Oslo, National Gallery of Norway).

Questa coincidenza di patologia mentale e infettiva è stata ancora l’immagine prevalente nei case report dei pazienti ricoverati in questi mesi, e la “COVID 19 Psychosis ha sollecitato”, nel ciclico ritorno delle questioni, tipico della disciplina psicopatologica, nuovamente letture “infiammatorie” e “autoimmuni”, si vedano i contributi di Koftis,29 di Ferrando30 e di Rentero.31 Il riscontro di aspetti psico-organici appare peraltro in continuità con la presenza di lesioni neurologiche32-36 dove la patogenesi autoimmune viene esplicitamente ipotizzata37 e rilevato il ruolo della citochine.38 Inoltre il virus agirebbe in senso destabilizzante sull’economia psichica,39 producendo psicosi reattive40 o rendendo evidente quadri sottosoglia. In tema di psicosi, in verità, l’interesse prevalente è stato di vedere come l’infezione, o semplicemente il rischio d’esserne contagiati, modifichi turbe precedenti. Al riguardo le osservazioni sono le più varie e tuttavia rispondono a logiche precise. Se da un lato chiusura e distanza, imposte dalla pandemia e dalle regole che ne derivano, hanno in certi casi quasi protetto alcuni pazienti e sfumato le loro difficoltà interpersonali, e quindi attutito le manifestazioni deliranti, dall’altro solitudine e sospensione hanno finito in molti casi per scatenare e alimentare vissuti di Stimmung inediti e intensamente destrutturanti. Riacutizzazioni sono descritte per i deliri,41 per le forme maniacali42 e depressive.43 Particolare risalto, nei diari clinici all’interno della pandemia, l’assumono i suicidi,44 la cui fenomenologia peraltro si presenta complessa: da un lato a muovere il gesto è il peso della malinconia, gravata sovente da difficoltà economiche e sociali, dall’altra dirompente si rivela la morsa di una soffocante Stimmung e la spinta paradossale a sottrarsi ad un destino chiuso. Non a caso il problema del suicidio è stato oggetto di particolare attenzione, anche per quanto concerne la possibilità di interventi di prevenzione.45 Di rilievo sono poi i vissuti dello spettro fobico-ossessivo, infittiti e aggravati dalle pratiche di controllo estese a tutti noi. Si pensi alla “sindrome della capanna”, la Cabin Fever risale al 1900, epoca della febbre dell’oro negli Stati Uniti (ma egualmente Cabin Fever è nominata la serie di film horror aperta da Eli Roth del 2002, dove manifestazioni claustrofobiche si intrecciano a malattie trasmesse per contagio): alcune persone provano difficoltà ad affrontare il mondo dopo giorni di permanenza in casa; sono restii a uscire, a riprendere la vita precedente, a lasciare il rifugio che li ha protetti e tenuti al sicuro dal contagio.46

DOC e coronavirus configurano sovente una sinergia esplosiva,47 e in genere la dialettica tra dispositivi di chiusura istituzionali e meccanismi di difesa si rivela particolarmente delicata e quanto mai foriera di suggestioni interpretative. Questi pazienti presentano una comparsa significativa di inedite ossessioni e compulsioni o esacerbazioni di sofferenza, possono inoltre mostrare idee di suicidio, dipendenza da Internet, disturbi del sonno, comportamenti di evitamento e difficoltà occupazionali.48

Questa fenomenologia delle turbe psichiche emergenti e del nuovo dispiegarsi di quelle già presenti, attive o quiescenti, costituisce in ogni caso un capitolo del nostro breviario di psicopatologia, un mosaico di osservazioni che si va ogni giorno estendendo, strutturando un’esperienza straordinaria, che difficilmente avremmo potuto prevedere. E tuttavia il disegno, che va acquisendo precisi lineamenti, sarebbe incompleto se non si considerasse l’atmosfera in cui il nostro sguardo esplora, quasi incredulo di muoversi dentro un silenzio assordante, in un tempo sospeso e rarefatto come la “radura nebbiosa” di Heidegger o, per restare vicini alla nostra realtà, come la nebbia padana. Un silenzio che è fonte di nuovi pensieri, di parole autentiche, come ci avverte la poetessa Chandra Livia Candiani: “Non voglio imparare a tacere, voglio assaporare il silenzio da cui ogni parola vera nasce”.49



questioni di biopolitica 

Il disorientamento, la sensazione di paura e di impotenza ci consegnano al potere della medicina. Non è un fatto nuovo nella storia, ogni epidemia configura tale situazione. Dalla critica radicale di Ivan Illich che negli anni Settanta denunciava: “la corporazione medica è diventata una grave minaccia della salute”,50 si assiste oggi al prevalere indiscusso dei tecnici della salute. In ore d’angoscia, di fronte alla malattia che mostra un volto implacabile, ci si rende conto, si tocca con mano, di come la medicina eserciti un innegabile dominio. Già lo notava Michel Foucault: “quel che fa sì che il potere regga, che lo si accetti, ebbene è semplicemente che non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi”.51

Ma vi è di più. Nella presente pandemia il pericolo assume tale dimensione che ci rivolgiamo alle scienze biologiche per scongiurare una catastrofe planetaria. Febbrile è la richiesta di farmaci risolutori e del vaccino vagheggiato come un autentico deus ex machina. E tuttavia, perché questi voti si realizzino, i nostri corpi minacciati si devono consegnare al controllo della medicina,52 sottostare alle regole, in un certo senso finiscono per accettare di essere smaterializzati e ridisegnati nella prospettiva della ‘tecnica’. Il fantasma della biopolitica53 ritorna prepotente, e il “disagio” segnalato da Freud, e le riflessioni sulla ‘tecnica’ di Heidegger, acquistano, ai nostri sguardi, bruciante attualità. La minaccia della natura viene di fatto percepita quale minaccia della cultura e della tecnica. La paura del contagio, l’ossessione di venir contaminati, implicano la resa a un controllo sociale. Si deve sottostare, e lo si fa obtorto collo, a norme costrittive di distanziamento e di isolamento, ai dispositivi della quarantena e dei lockdown. Anche i vissuti persecutori che ne derivano non sono nuovi, si pensi alle fantasie degli untori nelle pestilenze antiche: il coronavirus rappresenta un “trauma collettivo”, e ben si comprende allora la tendenza a individuare dei responsabili, in modo da sentire di avere la situazione sotto controllo e sapere chi ritenere colpevole. Ora queste disposizioni d’animo rivivono in nuove difese collettive, nelle voci dei “negazionisti” ben lette in un recente studio psicoanalitico54 e di chi vede l’origine della pandemia in un complotto e, nelle raccomandazioni per limitare il contagio, una scelta strategica funzionale agli interessi di chi gestisce il potere. Così il Manzoni descrive lo stato degli animi a Milano durante la peste: “La paura per il contagio che mieteva vittime sempre più numerose in città fece nascere nella gente spaventata molte suggestioni che propagavano l’assurda convinzione che alcuni delinquenti spargessero unguenti venefici per propagare la peste”. La diceria dell’untore può portare a rifiutare l’evidenza della malattia, a ritenerla un’invenzione e in quest’ottica, nel marzo scorso, un filosofo di audience internazionale ha parlato di “frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona”.55 Una difesa diffusa e trasversale, emozioni eguali a quelle che oggi muovono le posizioni di rifiuto della realtà e resuscitano fantasmi e agitano le piazze. Situazioni che si dichiarano ideologiche (o, in ossequio alla moda, post-ideologiche), ma che in verità evidenziano fragilità radicali e un senso diffuso di disorientamento, l’emergere di timori precoci e irrisolti. Fenomeni che vengono di solito ritenuti segni di malafede, mentre in verità sono prese di distanza dalla consapevolezza. Ad evidenza la comunità sociale è vittima di angosce collettive, e si produce una sorta di impregnazione delirante delle comunicazioni e dei vissuti relazionali quotidiani. La cronaca di quanto accade nel mondo annovera la presenza di numerosi movimenti fondati su convinzioni irrazionali, su misticismi aberranti, una sorta di galassia di oscure riprese di medioevali credenze. In altri termini persone che in situazioni normali presentano fragilità ben integrate se le vedono d’improvviso scoperte dalla pressione di un’atmosfera destabilizzante. Va da sé che questi quadri di allarme rivelano le condizioni di debolezza sociale e di disfunzione del sistema in cui la pandemia scoppia, si sviluppa. Questo avviene secondo la spirale di un complesso cortocircuito. In particolare fattori aggravanti sono le crescenti disuguaglianze sociali nella popolazione.56



contatti sfumati 

Tornando alle individualità, il leitmotiv che inanella le nostre attenzioni è in ogni caso, la crisi della presenza, il crollo dell’intersoggettività. Cambiano le relazioni ai tempi del COVID. Avremmo bisogno di abbracci. Più del solito. E, invece, ci troviamo a fare i conti con la paura di una confidenza. È un mondo che all’improvviso ci sembra sconosciuto quello in cui stiamo camminando tenendoci a distanza, con la mascherina sul volto, rinunciando a una stretta di mano, a un bacio, attenti a non contaminarci. Il virus, il nemico invisibile, ha cambiato molte cose nelle nostre vite. E si avverte la necessità di ripensare il rapporto con il corpo, la grammatica dell’affettività. La solitudine, il distanziamento, protratti in un’attesa senza tempo, sospendono le relazioni, rendono evanescenti gli affetti, le passioni, gli amori. Rinunciare alle strette di mano, alle carezze e ai baci, diradare la rete dei contatti fisici e degli sguardi, sortisce un effetto disperante per chi non pratica un cammino di meditazione o di ritiro dal mondo. Un severo artificio d’autismo. Alla quaresima del lockdown fa seguito il carnevale, l’eccitazione del “liberi tutti”, ne abbiamo fatto appena l’inevitabile e amara esperienza in estate. Lo spazio e la possibile condivisione dell’isolamento risultano essenziali a stabilire relazioni creative, valga per tutti l’esempio di Giovanni Boccaccio: i racconti del Decameron prendono vita in una villa nella campagna fiorentina dove dieci giovani si ritirano per scampare alla “mortifera pestilenza” che colpisce Firenze nel 1348. E ancora Gabriel Garcia Marquez ci racconta il tenero amore in solitudine di Fermina e Florentino sul battello lungo il fiume tra villaggi infestati dal colera.57 Spazio, compagnia, condivisione possono salvare da un isolamento che altrimenti impoverisce e ammala. La paura dell’Aids ha rafforzato la cultura dell’individualismo e dell’isolamento, e modificato ovunque mentalità e comportamenti.58

La deprivazione di emozioni, di sensorialità può infatti riportarci ad aree di formazione del Sé il cui attraversamento è risultato traumatico proprio perché carente di stimoli, di scambi attivi e fecondi. La solitudine si configura allora come il ripetersi di una mancanza di contenimento, di fisicità necessaria e fondante. Il ritorno di dolori, di assenze può riuscire così destabilizzante. Non è un caso se, in secoli in cui le pandemie si ripetevano, tra le icone di maggiore devozione figurava la ‘Madonna della Tenerezza’.



IL TEMPO SFILATO E CONTRATTO 

Si è detto che la situazione di lockdown può indurre concentrazione, effervescenza di pensieri e di riflessioni, stimolare anche spunti creativi ma tutto questo si inaridisce in assenza dello scambio. Se non ci specchiamo nell’altro, ci si avvita inesorabilmente nelle spire di un’economia solipsistica. Il lockdown configura allora un “tempo vuoto” e si assiste quasi a un disgregarsi della forma del tempo. La presenza si configura come un’esistenza fuori dal tempo, senza tempo. La temporalità si muta in una sequenza che non contempla più un termine: a un ‘adesso’ segue un altro ‘adesso’, istanti librati nel vuoto come perle di una collana sfilata e sgranata. I diari sembrano voler ritrovare un filo in grado di dare forma e senso a una continuità insidiata e gli esempi di un’etnografia del quotidiano raccolti da Laura Faranda59 ne sono una prova preziosa ma dicono altresì come la narrazione degli eventi possa piegarsi alla categoria antropologica di un vero “dramma sociale” nel segno di Victor Turner.60

Le dimensioni e le prospettive della Lebenswelt si attenuano, lo ha avvertito con acuta sensibilità Gilberto Di Petta “Siamo, tutti quanti, in una condizione pressoché unica nella storia, per lo meno sperimentata da un intero scaglione umano, di “sospensione del mondo”, ovvero, in termini fenomenologici, di “epochè” generalizzata. Neppure la memoria di chi ha vissuto l’ultima Guerra ricorda una “perdita relazionale” e una “perdita di contesto” di queste proporzioni, e una limitazione della libertà di movimento del genere”.61 Una sospensione che viene naturale associare alle immanenze dei miti, alla leggenda de “I sette dormienti di Efeso”62 tramandataci da Jacopo da Varagine e alla fiaba di Rosaspina “la bella addormentata nel bosco”, narrata da Charles Perrault e dai fratelli Grimm e letta da Bruno Bettelheim quale significato profondo del percorso dell’identità femminile.63 Oltre a far affiorare aree traumatiche scavate nello sviluppo, questo sgomento incolore, muto, arresta i nostri movimenti, i nostri progetti. È come se ci venissero rubati dei desideri, dei momenti di vita. È un vissuto che interessa al massimo i bambini ed i giovani, che sentono di non vivere la pienezza della loro fioritura. Ma anche chi è in piena maturità avverte ostacoli all’ascesa e gli anziani sono invasi da fredda tristezza.



il corpo ridisegnato 

Si delinea, trascorso un secolo esatto, in nitida evidenza il malessere denunciato da Freud. Su questo fronte il corpo non è solo luogo della malattia e della cura, dei conflitti e delle sofferenze, si rivela in verità una realtà di continuo ridisegnata dai dispositivi della biopolitica, e dal prevalere della tecnica.

Ogni giorno facciamo esperienza del nostro corpo in modi diversi.64 Possiamo “sentirlo” propriamente, senza alcuna mediazione: la carne è l’oggetto di questo sentire. Oppure lo “vediamo” dall’esterno, come quando incontriamo la nostra immagine riflessa allo specchio. L’equilibrio fra queste due modalità è la condizione ideale per avvertire le nostre emozioni, che ci radicano in noi stessi e nel mondo. È così che si costituisce e si dispiega l’identità. Tuttavia l’epoca moderna ha modificato e modifica incessantemente i nostri vissuti del corpo, a partire dalla scoperta della fotografia65 sino a quando, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, l’immagine si è imposta quale elemento cardine nel definire l’identità. E questo è accaduto, e accade, attraverso una progressiva smaterializzazione del corpo. L’uso recente del selfie ha ulteriormente radicalizzato tale processo: nell’epoca del selfie riusciamo ad avere conferma della nostra identità solo attraverso lo sguardo degli altri.66 In questa accezione “l’identità personale, il corpo e l’Altro vanno incontro ad una profonda metamorfosi, emblematica, sebbene in maniera distorta, dell’ethos della postmodernità”.67 La pandemia ha accelerato la perdita di contorni della presenza e del corpo, ne ha favorito la smaterializzazione. E tuttavia c’è un elemento positivo da registrare in questi gradi di smarrimento. In un momento in cui i corpi sono distanziati, isolati, la tecnica interviene facilitando le relazioni, anzi promuovendo nuove forme per mettersi in contatto, per essere operativi e anche per stare insieme. Si prospettano anche nuove possibilità di cura, rimodellando i setting tradizionali sulla base delle necessità imposte dall’emergenza. In questo senso si muovono osservazioni psicoanalitiche: la questione della presenza in seduta,68 le supervisioni precoci svolte da Blackman riguardo a trattamenti proprio nella città di Wuhan;69 notazioni cliniche e di metodo in margine a casi,70 oppure ampie riflessioni sulle dinamiche relazionali della cura.71

Ci troviamo a raccogliere la sfida di una mutazione antropologica: con tutte le perplessità che nascono dalla sospensione della presenza e da un’intersoggettività che non ha più il supporto della fisicità. Una mutazione segnata dalla comparsa di espressioni risemantizzate e metafore nuove, funzionali nel diffondere la lingua della globalizzazione.72 E questa è una sfida che consente pensieri lunghi e speranze inattese e che invita ad aprirci a un’inedita visione del mondo. Oscillando in una turbolenza tra paure e speranze, ancora ascoltiamo il canto di Rilke: “Voci, voci. Ascolta mio cuore, come altrimenti solo i santi seppero udire… quel che spira ascolta, l’ininterrotta notizia che da silenzio si forma” (Rilke, Elegie duinesi, I, 1912).



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